L’Italia non può più considerarsi un porto sicuro (“Place of Safety” ai sensi della Convenzione di Amburgo) per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus Covid-19. O almeno, questo è ciò che ritengono quattro ministri dell’esecutivo: Di Maio (Esteri), Lamorgese (Interni), Speranza (Salute) e De Micheli (Infrastutture e Trasporti) che il 7 aprile hanno firmato un decreto interministeriale – non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale – attraverso il quale si inasprisce il Decreto Sicurezza Bis e si criminalizza ancora una volta il soccorso umanitario, chiudendo di fatto i nostri porti alle ONG battenti bandiera straniera.
Strumentalizzando l’emergenza sanitaria, il Governo ha dunque ritenuto di poter dare una connotazione a “luogo sicuro di sbarco” totalmente arbitraria e discordante con il diritto internazionale: infatti, tale definizione è fissata da Convenzioni Internazionali i cui princìpi non possono assolutamente essere scalfiti da un provvedimento di natura amministrativa quale è il decreto interministeriale.
Un decreto, dunque, che non solo si fa beffa delle Convenzioni Internazionali dallo stesso richiamate (sic!) , ma che viola altresì diritti umani fondamentali quali quello alla vita o alla protezione internazionale.
Non si può infatti ritenere (come ha anche precisato la Cassazione nel caso di Carola Rackete) che l’attività di salvataggio di naufraghi si esaurisca con il loro recupero in mare: l’obbligo di prestare soccorso, dettato dalla Convenzione di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro. L’Italia non può sottrarsi agli obblighi internazionali attraverso un atto amministrativo che rappresenta un abominio non solo sotto il profilo giuridico, ma anche umano.
Il rifiuto da parte del Governo di far approdare una nave in un porto sicuro in Italia comporta anche l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola dunque il divieto di espulsioni collettive previsto dal Protocollo n. 4 alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’invito a fare rotta verso un altro Stato, rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso in acque internazionali e che si trova all’interno della zona SAR di un paese come l’Italia, viola il diritto internazionale e priva le persone dei diritti di chiedere asilo e di godere di una difesa effettiva, sanciti dagli articoli 10 e 24 della Costituzione italiana.
E’ inoltre evidente che gli sbarchi non si arrestano con misure amministrative e di polizia che si pongono al di fuori del principio di legalità e dello stato di diritto, impedendo il completamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali. Non si può sfruttare lo stato di emergenza derivante da una pandemia per criminalizzare ulteriormente gli interventi di soccorso umanitario operati dalle navi delle ONG, alle quali si nega un porto sicuro di sbarco, impedendo così il completamento delle operazioni di salvataggio e condannando a morte certa centinaia e centinaia di persone.
Il prezzo dell’emergenza sanitaria non può essere pagato da migranti che fuggono da condizioni di vita disastrose, ammesso e non concesso che possa parlarsi di vita nei lager libici. Il Governo, piuttosto, dovrebbe impegnarsi a garantire un piano di sbarchi in Italia (eventualmente anche adottando protocolli particolari imposti dall’emergenza sanitaria) ed a cooperare con le organizzazioni non governative anziché con quelle criminali come la Guardia Costiera Libica.
Come scrivono in un comunicato le ONG Sea-Watch, Medici Senza Frontiere, Open Arms e Mediterranea “la sofferenza di cittadini colpiti da un’emergenza sanitaria non può diventare motivo per negare un sostegno – che è anche un obbligo legale – a chi non perde il respiro su un letto di terapia intensiva ma annegando.
Tutte le vite vanno salvate, tutte le persone vulnerabili vanno protette, a terra come in mare. Farlo è possibile e doveroso.”