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Finanza rapace e disastri ambientali: le colpe di Unicredit

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Lo scorso giovedì 11 aprile una ventina di persone si sono radunate in piazza degli Affari a Milano, davanti a Palazzo Mezzanotte, sede della banca Unicredit. Alcuni di loro reggevano striscioni con la scritta Fossil Banks – No thanks.
Il presidio non ha avuto chissà che grande riscontro mediatico, ed in ogni caso il collegamento tra Unicredit, il più importante istituto finanziario italiano, ed un “qualcosa” vagamente inerente ai combustibili fossili sarebbe sfuggito ai più. E non c’è da stupirsi, dato che la maggioranza delle persone non avrebbe avuto alcun motivo di sapere, complice il silenzio della stampa, che giovedì mattina dentro il palazzo Unicredit si stava svolgendo un’assemblea degli azionisti della banca, radunati per decidere su passaggi cruciali per il colosso finanziario nostrano.
Il luogo scelto dai manifestanti ambientalisti non è stato però casuale: Unicredit è l’unica banca italiana a non essersi impegnata nell’escludere da possibili finanziamenti imprese operanti nel settore del carbone. Miniere di carbone. Dalle quali si estrae la materia prima che alimenta le centrali, appunto, a carbone, considerate tra le fonti di energia elettrica più inquinanti in assoluto.
Ma purtroppo non si tratta solamente di un documento non ancora redatto. In Turchia Unicredit opera proficuamente nel settore carbonifero da almeno 5 anni, nei quali ha concesso finanziamenti del valore di circa 1 miliardo di dollari a 2 compagnie minerarie turche, la Limak e la IC Ictas.
Qui il nostro discorso si complica, perchè la scelta della Turchia come amica e partner in un affare sporco e dannoso come quello del carbone non è accidentale: la Turchia è infatti il 4° consumatore al mondo del combustibile dopo Cina, India e Vietnam, e sul suo territorio ad oggi ci sono ben 26 centrali a carbone operative e altamente inquinanti.
Ci possiamo a questo punto chiedere perchè la vicina Turchia, la quasi europea Turchia, ci tenga tanto ad una fonte di energia così nociva… ci sarà pure qualcuno che ci deve guadagnare, la popolazione non di sicuro. Ma la risposta è facile, quasi scontata!
La corsa al carbone turco, condotta attraverso privatizzazioni selvagge dei giacimenti minerari, è stata fortemente voluta e sostenuta da niente meno che il presidente Erdogan, che ha sfruttato questa sorta di volano energetico ed industriale per favorire parenti, amici e amici degli amici, secondo uno schema di corruzioni e clientelismi ampliamente collaudato sotto il suo potere.
Ed il processo di privatizzazione non è stato compiuto unicamente per arricchire persone a lui vicine, o meglio, non solo: privatizzare nella Turchia di Erdogan significa poter eludere la normativa ambientale, aggirare le comunque deboli leggi esistenti in materia, beneficiando di cavilli burocratici favorevoli.
Con conseguenze anche disastrose, come ci ricorda la strage della miniera Soma, nel nord ovest della Turchia: 301 morti il 14 maggio 2014 per un incendio scoppiato nelle profondità dell’area dove operano anche le 2 compagnie sostenute da Unicredit.
In tutta l’area, la costa nord-ovest, considerati gli ultimi 30 anni (da quando cioè è cominciata l’attività estrattiva) le statistiche registrano 45.000 morti dovute a malattie correlate alla polvere di carbone, e 46.000 ricoveri ospedalieri per la stessa ragione.
Ecco il tipo di affari che piace fare a Unicredit.
E non stupiamoci allora se a suo tempo il buon Gentiloni stese il tappeto rosso a Erdogan in visita a Roma (febbraio 2018, attacco ad Afrin in corso). Solamente un segno di buoni rapporti per la gestione dei profughi/potenziali terroristi ISIS? O forse sotto c’erano anche interessi ben più venali, anzi… miliardi di interessi ben più concreti, e anche appetitosi, di qualche fanatico religioso barbuto al soldo di chissà chi, se USA o Russia o vassalli assortiti?
Cominciamo forse a capire perché esprimersi contro l’operato di Unicredit è giusto, e doveroso.
Abbiamo già detto che attualmente Unicredit è l’unica banca italiana a lucrare, almeno apertamente, sul giro del carbone. Sul perché di questa strategia, quanto meno impopolare, possiamo provare a ragionarci.
Unicredit ha bisogno di soldi. D’accordo, tutte le banche ne hanno bisogno, alla fin fine vivono di soldi.
Ma Unicredit oggi ne ha bisogno in modo particolare, perché naviga in cattive acque. E questo perché rischia una sanzione, da parte dell’Antitrust, pari al 10% del suo fatturato annuo: su circa 20 miliardi entrati nel 2018 (!!!), rischierebbe di pagarne 2. Su questo doveva decidere l’assemblea degli azionisti di giovedì.
E non deve pagare così, a caso: Unicredit viene sanzionata perché ha violato le norme sulla gestione dei titoli di stato, emessi per consentire il debito pubblico e che in molti casi sono composti dai risparmi di tante famiglie. Quindi, in definitiva, Unicredit ha rubato.
Ma non di questo si preoccupano gli azionisti, che con le questioni etiche non hanno troppa dimestichezza. L’unica cosa grave, che conta per loro, è la perdita di valore delle azioni.
In principio, per rientrare delle perdite dovute anche alla paventata sanzione, si è proceduto, secondo la prassi, con i tagli al personale: 6.000 posti in meno da 1 anno a questa parte, da 92.000 l’organico del gruppo è stato ridotto a 86.000 dipendenti complessivi.
Ma non basta, il profitto per gli azionisti non è abbastanza. Ma del resto non lo è mai. Da qui la decisione, a questo punto disgraziatamente comprensibile, di prestare una miliardata di dollari (d’accordo, spalmati su 5 anni) ad industriali del carbone turchi immanicati a vario titolo con Erdogan, dittatore corrotto e genocida. Un applauso.
Ora forse siamo riusciti a chiarire un po’ meglio le strategie rapaci e predatorie del gruppo Unicredit.
In patria infrange le normative finanziarie, comunque mai troppo stringenti, per massimizzare i profitti a discapito anche dei risparmiatori, di fatto rubando.
All’estero, dove trova complici come in Turchia, foraggia industrie pericolosamente inquinanti contribuendo direttamente alla distruzione dell’ambiente prescelto per il saccheggio.
Ecco quindi cosa è brava a fare Unicredit e gli altri colossi finanziari come lei: rubare e distruggere.

Autore

Daniele Trovò

ph. BankTrack