A due anni dalla firma, l’accordo Italia-Libia sulle migrazioni, sostenuto dall’Unione europea, continua a produrre morti nel Mediterraneo e a favorire la detenzione nei lager libici di migliaia di uomini, donne e bambini. Manca il respiro, si gonfia il cuore e si stringe lo stomaco nel leggere i numeri delle persone che in due anni sono annegate: 5.300, con le loro storie, aspettative, desideri e aspirazioni, di cui 4.000 solo nella rotta del Mediterraneo centrale.
È di febbraio di quest’anno il rapporto “Accordo Italia-Libia: scacco ai diritti umani in 4 mosse” diffuso da Oxfam Italia e Borderline Sicilia che analizza la strategia messa in atto dal governo italiano e dall’Ue, che conferma la totale noncuranza ed inadeguatezza nella gestione di politiche di ingressi nel nostro continente; mentre è di una settimana fa la notizia di una pace trovata e di un fantastico accordo tra Italia e Francia, tra Salvini e Macron, per il controllo e la gestione del confine tra la Val di Susa e la regione di Haute-Alpes, diventata una delle rotte più battute.
Diventa così lampante quanto la contrapposizione tra un fonte sovranista e un fronte di paesi pronti a difendere i diritti fondativi dell’Europa in realtà è fittizia, strumentale soprattutto alle prossime elezioni europee.
Il sovranismo di Orbàn e Salvini e il nazionalismo di Macron vanno perfettamente d’accordo se si tratta di chiudere, sia le frontiere esterne con la Libia sia le frontiere interne. Parallelamente vanno avanti processi nei confronti di cittadini che prestano assistenza: sono in corso processi a Briancon come a Riace. La situazione che si va delineando penalizza qualunque forma di libertà di movimento e penalizza soprattutto le persone.
In questo panorama c’è chi ha deciso di raccontare la storia di un confine, appunto quello tra Italia e Francia, un confine che nel weekend vede sciatori riempire le piste da sci, le funivie e i ristoranti noncuranti o inconsapevoli di chi invece durante la settimana rischia la vita su quelle stesse montagne per garantirsi una vita degna.
The Milky Way è un docufilm di SMK Videofactory con la regia di Luigi D’Alife che ho avuto la grande gioia di intervistare e che parla di ieri e di oggi, di terre, di popoli e di storie.
Perchè la scelta di raccontare proprio questo confine, quello tra Italia e Francia, sull’arco alpino e non un altro?
Nel mio primo lungometraggio Binxet – Sotto il confine ho raccontato uno dei confini più “caldi” al Mondo, quella tra Turchia o Siria (o meglio tra Kurdistan Rojava e Kurdistan Bakur), un luogo in cui si manifesta forte la violenza del potere, ma anche la resistenza al potere. Mentre continuavo a portare il film in giro per l’Italia, nell’agosto 2017 ho iniziato a leggere delle prime notizie che raccontavano di una “nuova rotta migratoria” sul confine occidentale, in particolare quella che da Bardonecchia e attraverso il Colle della Scala, portava in Francia.
L’inasprirsi dei controlli e della violenza nella zona di frontiera di Ventimiglia, piuttosto che la chiusura delle altre zone di confine come il Brennero o Como, hanno fatto riemergere la rotta alpina come tra le poche, forse unica, via di passaggio verso la Francia ed il Nord Europa, con tutte le conseguenze che se ne possono trarre.
Per questo ho creduto importante provare a studiare e documentare quanto stava avvenendo, soprattutto per provare a dare una narrazione diversa da quelle dei media mainstream che, in particolare durante l’inverno 2017/2018, hanno mediatizzato molto la rotta alpina ma quasi sempre dando esclusivamente un racconto di emergenza umanitaria (a cui poi è seguita la fase dell’emergenza securitaria) dicendo invece poco del contesto dove tutto ciò avveniva, oltre dei motivi che spingevano decine di persone ogni giorno a tentare di attraversare il confine in condizioni terribili con metri di neve.
Le zone di confine sono zone particolari a livello di relazioni, di sentimenti, di pensieri. Quale è il ruolo della comunità locale nella quotidianità e se ha avuto un ruolo durante le riprese?
I confini sono tracciati sulle carte dalle leggi e dagli Stati, per questo chi vive in zone di confine quasi mai li riconosce come limite. Il confine occidentale è una frontiera nuova, nata poco dopo il 1860 per separare il Regno D’Italia e la Francia.
Nel 1947, con il trattato di Parigi, il confine è stato nuovamente tracciato separando e schierando sui fronti contrapposti di una nuova ed artificiale frontiera le comunità̀ linguisticamente e culturalmente parti della stessa millenaria civiltà alpina. Quindi la prima domanda che mi sono posto è: l’area del confine italo-francese ha costituito davvero un limite, oppure sono state soprattutto zone di passaggio, di scambio di osmosi, laboratorio di esperienze e convivenza?
La verità è che le relazioni commerciali, l’emigrazione, la transumanza, i legami famigliari, non sono stati mai interrotti: attraverso i colli i montanari mantennero vivi usi consuetudinari e millenari di chi non riconosceva quei confini, pratiche che travalicano tutt’ora i due lati delle frontiere.
Per questo per raccontare The Milky Way siamo partiti proprio da qui. Dalla comprensione e dal racconto del territorio dove si svolge questa storia, dalla conoscenza delle persone che lo vivono e che lo attraversano.
Le comunità di queste montagne hanno un ruolo molto importante per quanto riguarda il sostegno ai migranti in transito, che siano dal lato francese o italiano poco cambia. Sicuramente all’interno del film avranno un ruolo di primo piano.
“La nuova “rotta alpina “dei migranti di nuovo non ha nulla. Quasi 70 anni fa la chiamavamo “della speranza”. Ora non più.” puoi chiarirci il ruolo della memoria nel tuo documentario?
Sono convinto che è impensabile raccontare luoghi e storie senza conoscerne le radici ed il corso degli eventi. La rotta alpina è sempre esistita; già in epoca pre-romana era una importante via di collegamento tra la pianura padana e le terre d’oltralpe. Poi i pastori berberi che avevano seguito i loro signori nelle terre dell’Andalusia alla ricerca di nuovi spazi per i pascoli, continuarono il cammino varcando prima i Pirenei e successivamente il Moncenisio.
I celebri “marrons”, i portatori ed i “paesseur” del Moncenisio e del Monginevro, vengono accostati ai “sarrasins” (saraceni): ecco perché vengono definiti “marroni”, altro che per il colore dei vestiti, ma per il colore della pelle. Che forse erano già lì da un pezzo, magari dal passaggio di Annibale.
Quello alpino è da sempre un sistema che invia migranti sui due versanti delle montagne senza troppa considerazione dei confini statali e le fasi di crisi acuiscono tale tendenza.
Negli ultimi 200 anni sono centinaia di migliaia gli italiani che, clandestinamente, provavano a raggiungere la Francia proprio da questi colli.
A centinaia ne sono morti, di freddo, di stenti, senza attrezzatura adeguata e conoscenza della montagna. Esattamente come accade oggi.
Le storie sono diverse così come il contento storico, ma invece le dinamiche legate all’emigrazione/immigrazione rimangono quasi sempre immutabili.
The Milky Way non sarà certamente un documentario storico, nel senso stretto del termine, ma la memoria ha certamente un’importanza centrale.
Non si tratta solo di ribadire come le rotte migratorie sono sempre esistite nella storia dell’umanità, ma anche come le dinamiche di solidarietà e di mutuo soccorso continuano a sopravvivere ed a manifestarsi, in particolare in un luogo come la montagna, che così come il mare, rappresenta uno spazio in cui “nessuno si lascia da solo”.
The Milky Way sarà un documentario realizzato con tecniche differenti, riprese, disegni, interviste. Una commistione di teste e mani… come nasce questa scelta?
Personalmente The Milky Way rappresenta una sfida in tutto e per tutto, tanto in termini produttivi che narrativi. Il processo che ha portato alla nascita di The Milky Way è stato totalmente diverso rispetto a quello di Binxet – Sotto il confine.
Innanzitutto perché questo è un film collettivo nel senso vero del termine. L’incontro ed il legame stretto con SMK Videofactory, la casa di produzione indipendente nata a Bologna nel 2009, specializzata in documentari a sfondo sociale e lavori di inchiesta e di denuncia, è stato rivelatorio e fondamentale per crescere e per trovare nuove forme di sperimentazione dentro e fuori il genere del documentario sociale. Da qui la voglia di provare tecniche e stili diversi; l’animazione ma anche fiction di ricostruzione, ponendoci la questione etica di mettere in primo piano la tutela di chi oggi si vede già costretto a rischiare fin troppo a causa delle politiche razziste dell’Italia e dell’Europa.
Soprattutto il film si regge intorno al concetto di co-produzione popolare.
Questo perché crediamo che non sia solo necessario, ma anche possibile, ribaltare le logiche del mercato cinematografico (sia in termini produttivi che distributivi), dimostrando che si possono realizzare progetti culturali di alto livello a partire dalla giusta retribuzione per il lavoro e lo sforzo creativo fatto, creando reti di comunità e persone che attraverso le produzioni dal basso rendono sostenibile tutto questo.
La vediamo come un’alternativa necessaria all’omologazione dell’informazione asservita al potere, al monopolio dei gruppi editoriali, alle logiche di sfruttamento e di mercato. Vuol dire ricoprire un ruolo attivo nella produzione culturale indipendente.
Da poco abbiamo terminato la prima campagna di crowdfunding su “Produzioni dal basso” ed i risultati sono stati importanti con oltre 200 tra collettivi, associazione e singoli che hanno deciso di diventare co-produttori e co-produttrici.
A maggio termineremo le riprese del film e da lì in poi ci attenderà una delicata fase di post-produzione, in cui evidentemente il sostegno della comunità avrà un ruolo primario.
Per questo l’invito è quello di continuare a seguirci sulla nostra pagina facebook e di unirsi a noi sulla Milky Way.
Autrice