Si dice che un libro non vada mai giudicato dalla copertina, ma non sempre bisogna dar retta ai modi di dire. Con questa consapevolezza ho acquistato due anni fa “Damasco”, l’ultimo romanzo di Suad Amiry, uscito nel 2016. Cosa aveva di speciale quella copertina? Un mondo, un mondo che mi attrae da sempre, il mondo orientale. In copertina c’è la foto di un pavimento a mosaico, con al centro un tavolo rotondo coperto da una tovaglia bianca. Attorno al tavolo due donne, un bambino e due uomini, tutti con la testa coperta. Un’immagine che racchiude la bellezza e la raffinatezza del mondo orientale, la sua socialità, il suo esotismo, il suo essere prezioso e antico. Questa copertina mi ha tormentato per giorni, finché non ho deciso di comprare il libro. Le possibilità che il noto adagio rispondesse a verità sono state scongiurate già dalle prime pagine. La scrittura di Suad Amiry conquista e seduce immediatamente, e lo fa usando le armi sofisticate dell’affabulazione e dell’ironia. Il mondo narrato in Damasco è un mondo che non esiste più, e non esiste perché la terra siriana è martoriata da anni da sanguinose guerre che hanno ridotto in macerie le sue bellezze. Una terra amata da Suad Amiry, perché ad essa è unita da legami di sangue: sua madre era nata a Damasco da una delle famiglie più ricche e potenti della città. Le vicende narrate nel libro sono quelle della famiglia della madre e descrivono un mondo incredibilmente lontano dagli stereotipi con cui spesso viene rappresentato. Un mondo fatto di legami familiari indissolubili, di tradizioni, di suq affollati e palpitanti di vita, ma anche di figure femminili anticonvenzionali e volitive, antitetiche alla vulgata che vuole le donne arabe sottomesse agli uomini e al loro destino. Come le zie di Suad che, donne nubili nella Siria degli anni ‘50, adottarono e crebbero insieme una bambina. Non solo le donne della famiglia trovano spazio nella narrazione, ma anche due donne della servitù, che hanno un ruolo cruciale nella vicenda, e che danno la possibilità ad Amiry di descrivere la vita della parte più marginale della società. Poi le prelibatezze che venivano servite tutti i venerdì nel grande palazzo di Damasco. Un elenco infinito e minuzioso. Testimonianza di un mondo ricco e incredibilmente raffinato. E poi le descrizioni del palazzo. La grande casa che accoglieva tutta la famiglia per il pranzo del venerdì. Un palazzo di cui vengono decantati gli splendori ma anche il lento e inesorabile declino, che è poi metafora del declino che la Siria ha attraversato. Le vite dei membri della famiglia di Suad Amiry saranno investiti da questi cambiamenti travolgenti.
Damasco è un omaggio allo splendore di una terra che oggi è profondamente ferita, ma che non può perdere la speranza di rinascere, perché senza di lei tutti noi siamo più poveri. Ed è proprio questo senso di perdita che si avverte leggendo le pagine del romanzo, un senso di perdita che non è personale. Non è la storia della famiglia di Amiry, sono le vicende di un popolo, quello arabo, che ci coinvolgono e ci fanno indignare, sorridere, provare nostalgia. Perché anche questo è “Damasco”, un romanzo sulla nostalgia di un tempo e di un luogo ormai lontani. Quel palazzo ormai non c’è più, come la maggior parte delle donne e degli uomini che dentro quel palazzo hanno vissuto, tessuto relazioni, narrato vicende del passato, custodito segreti. Suad Amiry ha voluto trovare delle parole per fare in modo che quella memoria non venisse persa.
Conservare la memoria, questo è ciò che la Amiry ha fatto e continua a fare anche attraverso la professione di architetta. A Ramallah, la città in cui ha scelto di vivere, ha dato vita a Riwaq, una fondazione che si propone di raccogliere e custodire le testimonianze materiali del passato della Palestina e di offrire la possibilità ai giovani palestinesi di potere lavorare nella loro terra. La fondazione della Amiry, infatti, dà lavoro agli operai palestinesi nei suoi cantieri. La mancanza di lavoro è un problema molto grave per chi vive nei territori palestinesi. Il tasso di disoccupazione si aggira intorno al 50%. Questa situazione spinge molti palestinesi a cercare lavoro nei territori d’Israele, ma ciò comporta molti rischi, come l’arresto, se non si è in possesso dei permessi richiesti dal governo israeliano (e sono ben pochi i palestinesi che riescono ad ottenerli), e anche la morte. Per raggiungere i luoghi di lavoro bisogna attraversare numerosi checkpoint, che sono presenti non solo nelle zone di confine, ma sparsi per tutta la Cisgiordania, in modo da impedire di fatto la libera circolazione anche nel proprio territorio a molti palestinesi. Questa situazione viene descritta in un altro dei romanzi di Suad Amiry, “Murad, Murad”, del 2010, cronaca delle diciotto ore che la scrittrice ha passato in compagnia di un gruppo di braccianti palestinesi in cerca di lavoro nei territori israeliani. Ancora una volta la leggerezza e l’ironia vengono usate per stemperare il clima delle vicende narrate. Il romanzo si apre con Amiry davanti allo specchio che cerca di camuffarsi da uomo. La scena è divertente, e descrive i suoi goffi tentativi di nascondere il suo corpo da donna di mezz’età per farlo apparire simile a quello di un giovane uomo. È una donna cosciente della propria fisicità e della propria essenza. Non si nasconde dietro eufemismi, non cerca di apparire come non è, ma si descrive con ironia, senza mostrare di provare rancore per i segni lasciati sul suo corpo dal passare del tempo. Sa di essere una donna di quasi sessant’anni, e si descrive per com’è fatta. È agitata, perché sa che il viaggio che sta per intraprendere è molto pericoloso, e il suo stomaco non regge a tale pressione e la costringe a frequenti corse in bagno. Ma non cede alla paura, ed esce di casa a notte fonda perché vuole narrare la storia di quei lavoratori. Lei, donna dell’alta borghesia, potremmo definirla una privilegiata, vuole capire cosa succede a chi è meno fortunato, raccontare di chi è costretto a cercare un lavoro in Israele. Le condizioni di questi lavoratori sono spaventose. Ogni notte devono tentare di superare i posti di controllo israeliani per poi arrivare ad una sorta di mercato delle braccia, dove offrono i loro servizi a chi cerca degli operai. Suad è l’unica donna del gruppo e durante il viaggio ha modo di raccogliere i racconti dei suoi compagni di avventura, i “big boys”, come li chiama, e scoprire così storie dei villaggi distrutti dai bulldozer, degli aranceti sradicati, degli ordinari soprusi subiti dai lavoratori. L’incontro più tenero è quello con un ragazzino di 13 anni, anche lui un big boy, che affronta le stesse traversie degli altri braccianti. “Murad Murad” è il suo romanzo più duro, e lei stessa ammette in un’intervista pubblicata su “Doppiozero” a firma di Maria Camilla Brunetti, che è anche quello più vicino al suo cuore. Il fatto che uno degli scopi di Riwaq sia quello di offrire lavoro ai giovani palestinesi in Palestina dimostra quanto Amiry voglia contribuire a migliorare attivamente la condizione dei giovani della sua terra.
La Palestina è il grande amore di Suad, che ha scelto di vivere a Ramallah, la “Casa di Dio”, ed è proprio la casa uno dei temi più ricorrenti nella sua produzione. La casa di Ramallah, descritta in “Sharon e mia suocera” e in “Se questa è vita”, diari delle occupazioni israeliane della città nei quali Amiry racconta una quotidianità che non ha nulla di consueto, dove si può rischiare la vita per prepararsi un cappuccino, perché la macchina del caffè fa un rumore tale che da potere insospettire un soldato israeliano di passaggio. L’ironia con cui commenta episodi come quello della macchina per il cappuccino, ci danno la dimensione di quanto, ciò che nella nostra quotidianità considereremmo inaccettabile, in altre realtà sia talmente normale da poterci anche scherzare sopra. Nei suoi libri non racconta grandi gesti eroici, racconta l’ordinario, l’ordinario di un Paese che vive sotto occupazione, con un popolo sottoposto all’arbitrio quotidiano di una forza straniera e nemica, un popolo che ha perduto il diritto di abitare i luoghi dove ha vissuto per generazioni.
Nel romanzo “Golda ha dormito qui” parla del dolore della perdita della casa per i palestinesi.
Il libro raccoglie le storie di palestinesi che hanno perduto la propria casa a partire dal 1948, l’anno della Nakba, la catastrofe, quando 700.000 palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni dagli occupanti israeliani, a seguito della prima guerra arabo-israeliana. Questi palestinesi, e i loro eredi, si trovano nella condizione kafkiana di essere i legittimi proprietari di quelle case ma di non poterle riavere in nome della “absentees property law”, legge israeliana che li considera assenti i legittimi proprietari, anche se sono di fatto presenti sul territorio.
Una delle vicende narrate è quella di Huda, chiamata la Giovanna d’Arco di Palestina, che per vendicare il sopruso subito dal padre, al quale fu impedito di entrare nella splendida casa di Gerusalemme, si impegna a rendere difficile la vita dei coloni israeliani che abitano le case sottratte ai palestinesi. Huda organizza dei tour durante i quali racconta ai partecipanti la storia di queste abitazioni e dei loro autentici proprietari.
Le figure femminili occupano un posto speciale negli scritti di Amiry. Nel 2007 scrive “Niente sesso in città”, in cui racconta le vite delle sue amiche affiliate al fantomatico comitato di donne in menopausa autodenominatosi C.R.I.M.I.N.E., (Committee of Ramallah Indipendent Menopausal Inner Network Enterprise). Le protagoniste di questo libro sono donne emancipate e coinvolte profondamente nella vita politica palestinese, anzi, sarebbe meglio dire nella lotta: quasi tutte, compresa Suad Amiry, hanno militato nell’OLP. Donne molto diverse tra loro, con vissuti e provenienze geografiche diversi, ma tutte accomunate dall’aver scelto di lottare per la Palestina. Tra queste c’è anche la figlia adottiva di Arafat. Suad ha giocato a mischiare gli elementi biografici e i nomi delle sue amiche perché non voleva renderle troppo riconoscibili, poiché, a suo dire, la società palestinese è molto provinciale, e proprio per questo nel libro non si parla di sesso, che è una cosa che tutti fanno ma di cui nessuno parla.
Ho conosciuto Suad Amiry grazie ad una copertina evocativa e affascinante, che prometteva di trasportarmi in luoghi incantati: è stato molto più di questo. Ogni volta che apro un suo libro l’incanto si ripete, e crescono l’indignazione verso un’occupazione insostenibile e l’amore verso chi, nonostante tutto, resiste e vive.
Venerdì 5 ottobre Suad sarà a Ferrara, al festival di Internazionale, e insieme a lei saranno altri esponenti della cultura palestinese. Sarà un’occasione rara per vedere queste personalità riunite in un unico luogo dato che, come sottolinea la Amiry in un suo articolo di Internazionale che presenta l’evento: “Per volare in Italia, non potremo usare lo stesso aeroporto. A parte Rula, che ha un documento d’identità rilasciato a Gerusalemme, dal 2000 né io né Atef, ancora una volta come altri cinque milioni di palestinesi, abbiamo il diritto di usare l’aeroporto di Tel Aviv. Atef dovrà uscire da Gaza attraverso il valico di Rafah e prendere l’aereo al Cairo, mentre io dovrò viaggiare da Ramallah ad Amman e partire dall’aeroporto della capitale giordana. Se poi uno qualsiasi di noi volesse incontrare i suoi colleghi della diaspora a Londra e a Parigi, dovrebbe richiedere un visto britannico o uno francese. E sappiamo tutti cosa significhi ottenere un simile visto per chi ha un passaporto palestinese. Per non parlare del genere di domande rivolte negli aeroporti internazionali alle persone di Gaza come Atef o a quelle come me, i cui passaporti rivelano una nascita a Damasco o un padre di nome Mohammad. Come se essere palestinese non fosse già abbastanza grave”.
Autrice
Dora Patti