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Per un pugno di storie – II

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

(avventure trenodimensionali per giovani autostoppisti)
a cura di : !DORMOZERO!

Storia n°1 

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Ho vissuto a Milano fino a dieci anni prima che i miei genitori decidessero di espatriare a Voghera Galera. Nell’arco di quel decennio ho cambiato svariate case e altrettante scuole.
La prima scuola elementare fu la “Morosini” in viale Montenero proprio dietro casa, una scuola enorme con classi numerosissime stipate in aule minuscole. Eravamo in maggioranza italiani e ancora non si parlava di classi ghetto, anche se la percentuale di stranieri cresceva anno dopo anno.
Quando cambiammo casa per spostarci in via Benaco, sopra allo scalo dei treni di Lodi, cambiai anche scuola perché era troppo lontana da raggiungere. Mi avevano iscritto alle elementari della Bocconi, nello stesso complesso dell’università. Un edificio imponente con un giardino immenso, molto chiketoso e poco inclusivo.
Per un ragazzino come me ripartire da una classe che già aveva le sue dinamiche e integrarsi tra i miei nuovi compagni non fu facile. Ad oggi non ricordo nemmeno un volto. Stare tra persone che difficilmente ti accettano mi ha segnato profondamente, a tal punto da spingermi a disegnare compulsivamente sul mio quaderno per non dover incrociare lo sguardo degli altri.
Ricordo come se fosse ieri il mio sussidiario illustrato; un portiere giallo e verde che si tuffava per parare che cercavo di copiare con dovizia di particolari. Il disegno diventò per un anno la cura alla mia totale inadeguatezza. Giocavo male a pallone e non venivo mai scelto, vestivo strano (come voleva quella hippie di madre) e non avevo le Nike squalo che tutti portavano, oggetto di vitale importanza per poter essere incluso nel gruppo dei fighi. Così passavo le ore curvo sul mio quaderno finendo matite e stuprando gomme, a volte piangevo e non capivo di essere speciale e che quel dono sarebbe diventato parte imprescindibile della mia vita. Per me era solo un modo per non affrontare gli altri che mi escludevano.
Un anno dopo cambiammo di nuovo casa per trasferirci in via Machmahon, proprio dietro alla sede di Radio Popolare. L’edificio che avevamo affittato era abitato prevalentemente da cinesi. Il padrone di casa li sfruttava di notte nelle cantine, facendoli cucire a macchina per ore e ore, ricordo ancora che mentre mi addormentavo sentivo l’incessante rumore delle macchine… “tumtum tum tumtum” come un treno che passa sullo scambio. Nel gabbiotto del custode, tre metri per tre, vivevano quattro persone con due letti a castello e una bombola del gas con cui cucinavano, una situazione a dir poco allucinante (non vi dico l’odore di fritto per le scale che ogni mattina mia accompagnava all’uscio).
Cambiai scuola finendo nella quarta classe della “Rinomata Pizzigoni”.
Le elementari erano bellissime composte da un enorme giardino alberato con tanto di stalle dove c’erano bovini, ovini, galline e tutta l’arca di Noè. L’edificio centrale era dedicato ai corsi di conservatorio dove era iscritta la maggior parte dei pargoli della “Milano da bene”. Ovviamente non potei iscrivermi a cotanta bellezza.
Fui iscritto alla succursale per barboni, dall’altra parte del cancello che divideva i poveri dai ricchi. L’edificio era enorme ma solo un piano era agibile, fatto di ferro e amianto.
In quella classe composta dal meglio della “fiera dell’est” eravamo in tantissimi, il mio migliore amico si chiamava Sie (cinese ovviamente) mentre del resto dei compagni ho solo vaghi ricordi.
Ricordo Severino che mi infilava le matite appuntite nel culo e mi menava durissimo, ricordo Beppe bellissimo nella sua sindrome di Down, ricordo di aver sofferto come non mai perché non sono mai riuscito a integrarmi… troppo strano rispetto alla normalità dei jeans levis e delle nike firmate.
Al tempo anelavo ad essere parte di qualcosa, volevo diventare come gli altri, avere le cose che avevano gli altri perché significava essere incluso in qualcosa. Odiavo i miei genitori perché mi costringevano a vestirmi in modo bislacco e mi tagliavano i capelli a scodella. Oggi capisco che tutti quei bisogni erano superflui, che non ero io lo sbaglio ma gli altri che non capivano le mie qualità e si fissavano solo sulle apparenze. Quel bambino adesso cresciuto sa quanto vale e dove vuole arrivare con o senza l’approvazione di chi gli sta intorno. È stata proprio quella sofferenza a dimostrarlo, l’esperienza di anni di emarginazione all’interno di dinamiche scolastiche per lui oscure.
Oggi più di ieri capisco cosa vuol dire sentirsi escluso e le ripercussioni sulla mia percezione della vita, sono altresì cosciente che dovremmo insegnare ai più piccoli a riconoscere nel diverso un esempio piuttosto che un nemico… ma che vuoi farci “so’ ragazzi”.
mo.

 

Autore

!DZ!