
“L’industria dello spettacolo integrato e del comando immateriale mi deve dei soldi. […] per tutte le parole o espressioni di sicuro impatto comunicativo da me coniate nei bar periferici, nelle piazze, ai muretti, nei centri sociali, che sono poi diventate sigle di trasmissioni, potenti slogan pubblicitari o nomi di gelati confezionati, senza che io vedessi una lira; per tutte le volte che il mio nome ed i miei dati personali sono stati messi al lavoro gratis dentro calcoli statistici, per adattare alla domanda, definire strategie di marketing, aumentare la produttività di imprese che non potrebbero essermi più estranee; per la pubblicità che faccio di continuo indossando magliette, zainetti, calzini, giubbotti, costumi, asciugamani con marchi e slogan commerciali, senza che il mio corpo sia remunerato come cartellone pubblicitario Capisco che sarebbe complicato calcolare singolarmente quanto mi spetta. Ma questo non è affatto necessario, perché io sono Luther Blissett, il multiplo e il molteplice. E ciò che l’industria dello spettacolo integrato mi deve, lo deve ai molti che io sono e me lo deve perché io sono molti.”
Così scriveva Luther Blissett (il collettivo di scrittori che si è fatto conoscere con il romanzo “Q”) nella “Dichiarazione dei diritti” del 1995.
Immaginate ora che siano trascorsi 23 anni da quelle parole dirompenti e provocatorie e che la vostra vita sia proseguita tra lavori sottopagati, contratti precari, alcune importanti rinunce a causa delle vostre difficoltà economiche. Immaginate di esservi consolati con qualche acquisto, di esservi lasciati distrarre dai programmi televisivi e dall’industria culturale dispensatrice di pensiero unico. Immaginate di esservi presi qualche rivincita quando avete visto su Facebook la vita virtuale dei vostri ex compagni di scuola, quando vi siete creati una community o avete conquistato nuovi follower, mentre l’1% della popolazione continuava ad accumulare ricchezze grazie al lavoro e alle attività quotidiane del restante 99%.
Ora aprite gli occhi e fate i conti con il fatto che è tutto vero.
Se vi state chiedendo, increduli, come sia potuto accadere pensate a tutte le volte che avete progettato un pezzo del vostro futuro, convincendovi che l’unica via per vederlo diventare realtà passava attraverso il lavoro e il contratto a tempo indeterminato.
Non fatevene una colpa, era inevitabile considerata la storia politica ed economica del Novecento.
Oggi, però, ci sono le condizioni per riprendere in mano un tema, quello delle forme di sostegno al reddito, tornato alla ribalta durante le ultime elezioni politiche in Italia.
Inutile dire che il dibattito intorno alla proposta del Movimento 5 Stelle di introdurre un “reddito di cittadinanza” nel nostro Paese, sia stato piuttosto superficiale e fortemente condizionato dalle dinamiche tipiche di una campagna elettorale.
Innanzitutto, occorre dire che la proposta del M5S non ha nulla di radicale e che, al contrario, si configura come l’ennesima forma di pura assistenza per tutte e tutti coloro che non hanno reddito o hanno redditi molto bassi, condizionata all’inizio di un percorso di ricerca di un impiego.
Cosa c’è di male? Nulla, se si continua a considerare l’opzione lavorista come l’unica possibile per migliorare le proprie condizioni di vita.
“Nel contesto attuale, di congiuntura economica e innovazione tecnologica dominante, il diritto al lavoro tout court – spiega Andrea Fumagalli, docente di economia all’Università di Pavia ed esponente del Basic Income Network – è irraggiungibile e, a mio avviso, ha poco senso sia dal punto di vista economico che politico. La battaglia dovrebbe essere piuttosto rivolta alla conquista del diritto alla scelta del lavoro che potrà essere attuato solo nel momento in cui le nostre vite professionali non saranno più assoggettate al ricatto del bisogno, che toglie spazi di libertà e di liberazione.”
Ma come possiamo sottrarci a questo ricatto se viviamo costantemente in una situazione di precarietà del reddito? “Tutti noi – prosegue il professore – nella nostra quotidianità siamo inseriti in una catena di produzione di valore che, oggi, non viene riconosciuto. Il reddito di base è il dispositivo che remunera questa creazione di valore, ora fornita del tutto gratuitamente”.
Il problema è culturale, prima ancora che economico. “Le risorse che bisognerebbe trovare affinchè tutta la popolazione al di sotto della soglia di povertà relativa residente in Italia, compresi i migranti, possa percepire un reddito di circa 800 euro al mese sono pari a 14/15 miliardi di euro. Uno sforzo del tutto sostenibile – assicura Fumagalli – considerato che, negli ultimi due anni, il governo ha elargito al sistema delle imprese oltre 24 miliardi. Si potrebbero poi trovare ulteriori forme di finanziamento che consentirebbero di allargare la platea e alzare l’asticella del reddito minimo.”
L’altro nodo da sciogliere ha a che fare con i requisiti necessari per accedere alle forme di sostegno al reddito che, in tutta Europa, sono fortemente legate alla ricerca di un lavoro o al mantenimento di un determinato stile di vita. “I dispositivi introdotti nei vari Paesi europei – continua l’economista – seppur variegati e più o meno consistenti, possono trasformarsi, di fatto, in forme di controllo e repressione sociale. Le cittadine e i cittadini che accedono alle misure di sostegno al reddito devono osservare determinati obblighi comportamentali, per esempio rendendosi disponibili anche a proposte di lavoro avulse dai loro curricola professionali, o di consumo.” Per chiarire questo punto, basti pensare che, in Italia, non possono presentare domanda per il reddito di inclusione (REI) le persone che negli ultimi due anni hanno acquistato un motorino o una macchina. Una misura, dunque, che anziché promuovere l’autodeterminazione dei soggetti beneficiari non fa che conservarne lo stato di ricattabilità.
Se è vero che il dispositivo del “reddito di cittadinanza” proposto dal Movimento 5 Stelle rappresenta un passo in avanti rispetto all’approccio attuale, è altrettanto urgente immaginare un suo superamento a partire dalle considerazioni di chi teorizza la praticabilità di una misura di reddito di base universale e incondizionato.
Negli ultimi 20 anni, neolaureati, lavoratrici e lavoratori masticati e sputati fuori dal mercato del lavoro, disoccupati, poveri e migranti hanno guardato al contratto a tempo indeterminato come all’unica via d’uscita dalla condizione di precarietà che ha pervaso le loro vite. Senza voler in alcun modo svilire le giuste e importanti battaglie a difesa dei diritti dei lavoratori e per condizioni di lavoro dignitose, vale la pena chiedersi se non abbiano guardato dalla parte sbagliata.
Si cercherà di rispondere a questa ed altre domande giovedì 5 aprile al Laboratorio Sociale, in via Piave 63 ad Alessandria, durante la serata che vedrà ospite Andrea Fumagalli – L’INCONTRO E’ STATO RINVIATO A GIOVEDì 19 APRILE –
Ascolta l’intervista ad Andrea Fumagalli
Autrice Lucia Tolve
ph. Banksy – Coney Island Avenue