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Anno Domini MMXIX: partoriamo per la patria!

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Anno domini MMXIX …anche se non sembrerebbe.

É di pochi giorni fa la notizia, riportata da molte testate giornalistiche nazionali, di una proposta di legge targata Lega per riconoscere l’adottabilità al concepito come misura alternativa all’interruzione volontaria di gravidanza.
La proposta n. 1238 recante “Disposizioni in materia di adozione del concepito” che vede come primo firmatario il deputato leghista Alberto Stefani, seguito a ruota da un manipolo di altri 50 leghisti che hanno provveduto a sottoscriverla con fierezza, in realtà è stata presentata nell’ottobre 2018 ma è approdata alle commissioni riunite II – Giustizia e XII – Affari Sociali il 15 marzo scorso.
La notizia ha immediatamente suscitato parecchio scalpore ma il promotore Stefani si è premurato di rassicurarci specificando che la libertà della donna di abortire non viene minimamente toccata, semplicemente le si offre una possibilità in più. Certo, chi ha pensato che si trattasse dell’ennesimo attacco alla legge 194 nell’ambito dell’ormai evidente e costante tentativo di svuotarla di contenuto, è come al solito in mala fede e non si rende conto di quante possibilità di scelta vengano quotidianamente offerte dalla classe governativa alle donne.

Ecco infatti che ritorna quel linguaggio positivo, ricco di promesse, mirante a far passare l’idea per cui l’obiettivo dell’ondata conservatrice sia quello di creare maggiori opportunità per le donne.
Quello di porre tutte le questioni intorno all’aborto in termini positivi è un trucco comunicativo che ormai conosciamo fin troppo bene: l’esempio più eclatante si è concretizzato nell’approvazione di mozioni comunali in diverse città italiane (prima fra tutte Verona) che sono state dichiarate “città a favore della vita”. Definizione che sembra quasi sottintendere che coloro che lottano in difesa del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza sono assassin*, secondo alcuni anche cannibali, comunque sicuramente a favore della morte.Di questo linguaggio apparentemente positivo, intriso di bigotto paternalismo e menzogne, troviamo dimostrazione già nella relazione al disegno di legge n. 1238. Le premesse e le motivazioni addotte per giustificare la necessità di un intervento legislativo in materia di adottabilità del concepito sono pressoché identiche a quelle già contenute nelle mozioni anti-aborto sopra citate. Si leggono, infatti, affermazioni del tipo che la legge 194 “ha contribuito ad aumentare il ricorso all’aborto quale strumento contraccettivo e non ha affatto debellato l’aborto clandestino”, si parla di “uccisioni nascoste”, si imputa l’attuale crisi demografica alle donne italiane che stanno venendo meno al loro ruolo principale: quello riproduttivo. Insomma, per l’ennesima volta negli ultimi mesi, assistiamo ad un linguaggio non solo fortemente stigmatizzante per le donne che decidono liberamente di ricorrere all’IVG, ma altresì intriso di bugie, dati distorti ed opinioni personalissime prive di alcun fondamento scientifico e statistico, come già smascherato in un contributo di 15121 relativo alla mozione antiabortista presentata, sulla falsariga delle altre, anche in Alessandria.

É proprio in questo solco menzognero e fuorviante che s’inserisce un elemento ulteriore riportato nella relazione alla proposta di legge n. 1238. Si afferma, infatti, che “con la pillola abortiva RU486 si vuole permettere un aborto fai da te, al di fuori delle strutture ospedaliere, anche se la legge n. 194 del 1978 non lo prevede, contribuendo al diffondersi di una cultura dello scarto”. Falso! Il ricorso all’aborto farmacologico tramite somministrazione della RU486 rientra tra le procedure d’interruzione della gravidanza di cui alla legge 194/1978 e, pertanto, è previsto dalla stessa, contrariamente a quanto affermato nella relazione. Inoltre, proprio perché si tratta di una procedura consentita, l’utilizzo della RU486 deve avvenire in una delle strutture sanitarie individuate dall’art. 8 della citata legge, senza che sia possibile la sua vendita all’interno di farmacie, e il ricovero in ospedale deve durare dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento, oltre che essere attuato in presenza dei presupposti  e nel rispetto delle procedure stabilite dalla suddetta legge.

Viene da pensare, allora, che simili falsità volte a condannare il ricorso all’aborto farmacologico trovino giustificazione nel fatto che – come chiarito dalla Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. VI, 27.11.2012, n. 14979) – in riferimento all’aborto praticato mediante somministrazione della pillola RU486, è esclusa la possibilità di sollevare obiezione di coscienza nella fase di espulsione dell’embrione (c.d. di secondamento) in quanto attività di assistenza successiva rispetto all’intervento di interruzione della gravidanza. Insomma, sia mai che uno dei tanti medici ed operatori sanitari obiettori di coscienza presenti nelle nostre strutture ospedaliere debba trovarsi nell’impossibilità di poter invocare il diritto all’obiezione di coscienza di fronte ad una delle numerose assassine italiane nemiche della stirpe.
Proseguendo nella disamina della relazione alla proposta di legge emerge un altro dato curioso. Infatti, molte delle affermazioni paternalistiche e stigmatizzanti risultano essere un mero copia incolla di un’identica proposta di legge (la n. 4215) presentata alla Camera l’11 gennaio 2017 da due individui i cui nomi la dicono lunga: Mario Sberna e Gian Luigi Gigli, entrambi iscritti al gruppo parlamentare Democrazia Solidale – Centro Democratico. In particolare, Gigli, è anche l’ex Presidente del Movimento Per la Vita, guarda caso.
I due disegni di legge sono pressoché identici! D’altronde, non si scopre oggi lo stretto legame che vincola personalità cattoliche e la destra italiana: ne abbiamo avuto un esempio concreto solo lo scorso week end con il World Congress of Families che si è tenuto a Verona.
Le due proposte, gemelle tanto nella relazione accompagnatoria quanto nelle disposizioni normative, si prefiggono lo stesso obiettivo ossia quello di “coniugare l’elevato numero di concepiti indesiderati e il desiderio reale di coppie disponibili all’adozione nazionale” ovviamente premurandosi di precisare che le misure alternative all’interruzione di gravidanza non costituiscono forme di riduzione della possibilità di accedere alla legge 194, ma “rappresentano esclusivamente forme alternative all’IVG liberamente utilizzabili dalla donna”. Il paradosso è evidente: così come si specificava nelle mozioni antiabortiste, si precisa che l’intenzione è quella di far rispettare e applicare la legge 194 (soprattutto nella parte in cui, all’art. 1, si dice che lo Stato riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana sin dall’inizio), ma le azioni che concretamente vogliono mettersi in atto sul piano legislativo sono finalizzate a nient’altro che a minare alle fondamenta il diritto della donna alla propria autodeterminazione.
D’altronde, per comprendere a pieno quanta attenzione sia rivolta alla donna, è sufficiente leggere l’art. 1 della proposta di legge, il quale individua i termini e le condizioni in presenza dei quali è possibile ricorrere ad una misura alternativa all’interruzione di gravidanza e, nello specifico, alle procedure di adozione del concepito.

La norma testualmente recita: “ Nel caso in cui, entro novanta giorni dall’inizio della gravidanza, si verifichino circostanze per le quali il parto o la maternità possano comportare un serio pericolo per la salute psico-fisica della gestante, in relazione alle sue condizioni economiche, sociali o familiari o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, ovvero a previsioni di anomalie o di malformazioni del concepito, la donna può fare ricorso, nell’ambito delle misure alternative all’interruzione volontaria della gravidanza di cui alla legge 22 maggio 1978, n. 194, alla procedura dell’adozione del concepito disciplinata dalla presente legge.” Ciò che in realtà è seriamente emblematico della concezione della donna portata avanti dai promotori della legge emerge però in tutta la sua cinica evidenza al comma 2, laddove si dice che le disposizioni di cui sopra “si applicano anche se, dopo i primi novanta giorni della gravidanza, siano accertate patologie a carico del feto, tra le quali rilevanti anomalie o malformazioni, che determinino un grave pericolo per la salute psico-fisica della donna.”. Dunque il messaggio che passa è che l’unica cosa realmente degna di importanza è che la donna porti a termine la gravidanza, poco importa se da ciò possa derivare un grave danno per la salute psico-fisica della stessa. Ancora una volta – e proprio qui sta il paradosso, o meglio, la cattiva fede dei promotori che si ergono a difensori della maternità – il ruolo delle donne viene rilegato a quello di mere incubatrici perché, come dichiarato dallo stesso Sberna, “l’Italia ha bisogno dei suoi figli”.

Nei restanti sei articoli che compongono il disegno di legge si provvede poi ad enunciare modalità e condizioni per ricorrere all’adozione del concepito.Per onor di cronaca è opportuno precisare che la proposta di legge così come è formulata è destinata a rimanere lettera morta finché il nostro ordinamento continuerà a prevedere che la capacità giuridica, ossia la capacità di essere titolari di diritti e doveri, si acquisti al momento della nascita, ai sensi dell’art. 1 del codice civile.
I pro-life nostrani, però, hanno pensato proprio a tutto: infatti, il 20 novembre 2018, su iniziativa dell’onorevole Gasparri è stato presentato al Senato il disegno di legge n. 950 per la “Modifica dell’articolo 1 del codice civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica del concepito”. Tale proposta è volta a modificare l’art. 1 c.c. al fine di anticipare al momento del concepimento il riconoscimento della capacità giuridica e non, come invece è previsto oggi, riconoscere tale capacità solo alla nascita. Se fosse apportata detta modifica allora sì che potrebbe darsi in capo al concepito il diritto di essere adottato, come previsto dalla proposta di legge n. 1238, ma gli effetti non si limiterebbero a questo. Infatti, come chiarito dallo stesso Carlo Casini, fondatore del Movimento per la Vita, “per il nascituro, essere riconosciuto dotato di capacità giuridica ed essere riconosciuto titolare del diritto alla vita è la stessa cosa.”

Il risultato giuridico che si produrrebbe sarebbe quindi quello di equiparare la posizione giuridica dell’embrione a quella della madre, producendo l’assoluto ribaltamento del principio di diritto – enunciato nella storica sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975 – in forza del quale l’interesse costituzionalmente protetto del concepito non può assolutamente prevalere sull’interesse altrettanto costituzionalmente protetto della donna che è già persona. Per dirla breve, di fatto si rischia di rendere impossibile l’applicazione della legge 194, in quanto la tutela del concepito sarebbe elevata a valore assoluto, in quanto tale non bilanciabile con la libertà di autodeterminazione della donna.

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Tornando ora al testo della proposta di legge, già da una sommaria e superficiale lettura delle disposizioni contenute è impossibile non prendere atto (salvo che si ragioni in mala fede) di quanto la donna sia resa oggetto di un procedimento di stigmatizzazione e di quanto la sua tutela sia esclusivamente millantata. Basti pensare al numero di soggetti coinvolti nella procedura (descritta all’art. 5) volta ad ottenere lo stato di adottabilità del minore: gli operatori delle strutture socio-sanitarie all’interno delle quali, peraltro, già oggi si registra un’elevatissima nonché ingiustificata presenza di volontari pro-vita; il Pubblico Ministero, cui la donna dovrà render conto della propria decisione e manifestare – senza lasciar trapelare un minimo di turbamento – la propria volontà di non tenere con sé il nascituro dopo il parto. Infine, interverrà anche il Tribunale che – si suppone – non sarà composto esclusivamente da magistrati ordinari ma anche da membri onorari, in ossequio alla normativa relativa alla composizione del Tribunale per i Minorenni. Insomma, si tratterà di una procedura complessa tanto per gli adempimenti necessari quanto per il numero di soggetti coinvolti, che non produrrà altro risultato se non quello di ingenerare nella donna la consapevolezza di essere giudicata nelle proprie scelte, rendendo peraltro ancora più difficile di quanto già sia il ricorso alle legali procedure di interruzione volontaria della gravidanza.
Tutto ciò, peraltro, in baffo alla tutela della privacy in senso lato.
Sotto questo profilo è importante considerare un ulteriore aspetto: il legislatore finge di non ricordare che esiste già, da parecchi anni, una legge ad hoc (la n. 184/83) per le ipotesi in cui una donna intenda concedere in adozione il nascituro immediatamente dopo il parto. Ciò significa che già oggi, senza nessuna legge ulteriore, se una donna vuole portare a termine la gravidanza ma non vuole il neonato, può scegliere, nel totale anonimato, di non riconoscerlo alla nascita. In quel caso il Tribunale per i minorenni provvede “immediatamente” alla dichiarazione dello stato di adottabilità “senza eseguire ulteriori accertamenti”, ai sensi dell’art.11, comma 2, della legge 184/83.
Si potrebbe obbiettare che il deputato Stefani ed i suoi non siano a conoscenza dell’esistenza della legge n. 184/1983 (circostanza che, peraltro, non sorprenderebbe); tuttavia, anche a voler concedere il beneficio del dubbio, ciò è inverosimile, in quanto la suddetta legge viene più volte citata nel corpo della proposta.
Ma allora, se queste sono le premesse, sorge spontanea una domanda.

Se lo scopo della proposta n. 1238 non è quello di limitare l’accesso all’IVG ma solo di “coniugare l’elevato numero di concepiti indesiderati e il desiderio reale di coppie disponibili all’adozione nazionale” e se esiste già una normativa che consenta alla madre partoriente di non riconoscere il concepito e dare così avvio ad una procedura di adozione, qual è la reale esigenza che giustifica l’inserimento nell’ordinamento della normativa in esame? Nessuna.

L’obiettivo perseguito da una certa politica di destra intrisa di morale cattolica è solo ed esclusivamente quello di smantellare la 194 e svuotare di ogni contenuto il diritto all’aborto, rendendo sempre più impervio l’accesso alle procedure d’interruzione volontaria della gravidanza, in un’ottica di colpevolizzazione delle donne che decidono, nell’esercizio del loro libero arbitrio, di non diventare madri.

Ciò non è poi così difficile da credere se solo si pensa che i promotori di questo abominio legislativo altro non sono che individui culturalmente vicini al Ministro per la Famiglia Fontana o al senatore leghista Pillon (per intenderci, quello che in un’intervista del 12 settembre 2018 rilasciata a La Stampa affermava che alle donne che vogliono abortire bisogna offrire ingenti somme di denaro e, se non accettano, bisogna impedir loro l’aborto).

Insomma, la proposta di legge che qui ci occupa non può dirsi “caduta dal cielo” ma s’inserisce in un percorso politico intrapreso dalla Lega (e sostenuto da altri soggetti politici) già da parecchio tempo. Una delle tappe di questo cammino volto a far regredire, culturalmente e giuridicamente questo Paese, si è concretizzata nel sostegno e nell’attiva partecipazione di alcuni rappresentanti del governo italiano quali Salvini, Pillon e Fontana al World Congress of Families, il ritrovo dei repressi risorti dal Medioevo svoltosi a Verona il 29/30/31 marzo. Le raccapriccianti e violente posizioni dei fanatici partecipanti al WCF hanno prodotto un incredibile risveglio delle coscienze civili: sabato, alla manifestazione organizzata dal movimento transfemminista Non Una di Meno hanno preso parte circa 100mila persone in opposizione alle politiche omofobe, sessiste e retrograde espresse dal WCF.

La visione paternalistica, sovranista, patriarcale e di matrice cattolica di cui sono infette tanto la proposta di legge n. 1238 quanto le dichiarazioni pubbliche rese quotidianamente da alcuni esponenti politici minano alle fondamenta le conquiste in materia di diritti civili ottenute dalle donne negli ultimi 50 anni. Insomma, a discapito di quanto vogliano far credere, pare proprio che lo scopo perseguito dalla Lega sia quello di disintegrare la legge 194 ed ingenerare nella coscienza comune la moralistica convinzione che l’aborto rappresenti (come si riteneva prima del ’78) un delitto contro l’integrità della stirpe, il cui bene protetto è l’interesse demografico dello Stato.
Per usare un’espressione sicuramente cara ai fanatici integralisti cattolici nostrani, a pensar male si fa peccato, ma raramente ci si sbaglia.

Autrice

Beatrice Guasta

ph: Roberta Melchiorre