
“Quella «vita» che con la sua tirannia etica domina il discorso contemporaneo appartiene alla storia dell’illusione dell’inganno – o forse della religione – non alla storia del corpo.”
Barbara Duden, 1994
Dopo Verona, Sestri Levante, Ferrara, Roma Milano e Zevio (VR) eccola arrivata anche ad Alessandria: una mozione, sulla falsa riga della 434 approvata dal consiglio comunale di Verona, il cui fine è dichiarare “Alessandria città a favore della vita”.
Tutte queste mozioni sono strutturate in modo tale da perseguire una strategia ben precisa, come ricordato dalla giornalista e attivista di Non una di meno Verona Giulia Siviero: “il trucco consiste nel dire di voler applicare la 194 nella sua totalità sostenendo però delle associazioni che sono legate a movimenti che vogliono abrogare la 194” , e di voler informare sulle alternative all’aborto, cosa che già avviene all’interno dei consultori pubblici (o dovrebbe avvenire, se qualcuno decidesse di presentare una mozione per l’approvazione di un incremento di finanziamenti per queste preziose strutture).
Se in quella approvata a Verona le fonti citate sono fuorvianti, provenienti da siti cattolici o assurdi (es: www.bastabugie.it) e la maggior parte riconducibili al Movimento per la vita, i consiglieri del comune di Alessandria promotori della mozione Emanuele Locci (Presidente del consiglio comunale – Alessandria migliore con Locci), Oria Trifoglio (Quarto Polo), Giuseppe Bianchini (Presidente Siamo Alessandria), Carmine Passalacqua (Forza Italia) e Piero Castellano (Presidente Fratelli d’Italia) fanno di più: evitano di citare fonti e dati. Per capirci: le premesse sono identiche, il testo è palesemente lo stesso, ma sono scomparse le note a piè di pagina. Anche il linguaggio ideologico è lo stesso: un linguaggio che sottende una colpevolizzazione nei confronti della donna e di chi con lei si renderebbe complice di “uccisioni nascoste, in riferimento al ricorso alla pillola abortiva e di “eliminazioni di embrioni umani sacrificati”, in riferimento al ricorso alla fecondazione medicalmente assistita.
Il testo della mozione è ormai di dominio pubblico ed è forse il caso di analizzarlo, dal momento che stiamo parlando di un documento ufficiale che riporta dati scientifici manipolati, con l’aggravante che una dei due principali promotori, la Dott.ssa Oria Trifoglio, è l’ex responsabile del reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale di Alessandria. Ma soprattutto perché uno dei due principali firmatari sostiene che chi lo critica non abbia letto a fondo la mozione.
Dopo aver riportato degli estratti degli articolo 1, 2 e 5 della legge 194/1978, con un lavoro di taglia e cuci a dir poco sconcertante, la seconda pagina è dedicata ad analizzare gli “effetti sociali e culturali prodotti da questa legge”.
Quali dati citano i consiglieri nel momento in cui affermano che la promulgazione della legge in questione avrebbe contribuito ad aumentare il ricorso all’aborto quale strumento contraccettivo? Chi può arrogarsi il diritto di dire se un aborto sia motivato o no? Il linguaggio adottato da associazioni “pro-life” non concepisce minimamente che una donna possa essere libera di diventare madre per i motivi più disparati; il motivo deve essere serio o grave, la libertà di scelta non è tra le opzioni. E ancora, dal momento che si parla di contraccezione, sul serio vogliamo elargire “congrui finanziamenti” ad associazioni la cui posizione sull’utilizzo dei contraccettivi è riassumibile in questa frase (tratta da un comunicato stampa del luglio 2018 dell’associazione ProVita onlus, in risposta alla delibera della regione Piemonte che prevede l’accesso gratuito ai metodi contraccettivi per alcune fasce d’età e di reddito):
“Quale informazione si dà rispetto alla responsabilità legata alla procreazione trasmettendo il messaggio falso e deresponsabilizzante: «Divertiti pure, tanto con i contraccettivi non rimarrai incinta?».”
Il fatto che molte donne ricorrano ancora all’aborto clandestino non è assolutamente correlato all’approvazione della legge 194, anzi, in queste due interviste (1 e 2) la presidente della Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194) spiega per quale motivo sia un fenomeno così diffuso e quanto l’alto tasso di obiezione di coscienza incida sulla presenza di questo fenomeno:
«Ne esistono tre tipi: il primo è quello che noi definiamo “d’oro”, il secondo invece è quello a cui ricorrono le donne italiane che non trovano posti disponibili nelle strutture sanitarie, infine il terzo, quello più feroce, riguarda le donne straniere, spesso senza documenti».
Non è, forse, per la mancanza di misure che effettivamente sostengano le giovani famiglie? Chi vuole restituire alle donne la serenità necessaria ad accogliere il proprio bambino o bambina dovrebbe forse concentrarsi sugli effettivi sostegni alla maternità: bonus bebè, congedo di paternità, quote degli asili nido accessibili, sostegni al mutuo sulla prima casa ecc.
A cosa si riferiscono i firmatari della mozione in questo passaggio? Fino a prova contraria i presupposti della legge restano validi. Piuttosto è il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza entro i 90 giorni che spesso è minacciato a causa della massiccia presenza di medici e operatori sanitari obiettori. Come scrive il giurista Luca Benci, esperto di biodiritto, nel suo libro “Tutela la salute. Il diritto alla salute negato, privatizzato e mercificato”: «In una regione come la Toscana, che ha un numero di obiettori di coscienza inferiore alla media nazionale, l’istituto dell’obiezione comunque pesa: in una pubblicazione dell’Agenzia regionale di sanità si legge che dal 2001 al 2011 è raddoppiato il tempo di attesa per effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza passando da una a due settimane e ormai oltre il 51,1 per cento delle donne effettua l’interruzione dopo l’ottava settimana con rischi maggiori per la salute delle donne.»
Possiamo quindi ritenere che i firmatari della mozione, tra cui va annoverata una ginecologa obiettrice, dal momento che ritengono che spesso il termine dei novanta giorni venga disatteso, possano concordare con noi nell’affermare che «anche il semplice ritardo è negazione del diritto di tutela della salute in quanto si espongono le donne a un rischio maggiore» . Questa è la conseguenza logica dell’affermazione siglata dai cinque consiglieri.
Non dimentichiamoci infatti che, proprio in virtù del fatto che la possibilità di abortire entro i novanta giorni della gravidanza è un livello di assistenza essenziale che le regioni sono tenute a garantire, il Comitato dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha condannato per ben due volte l’Italia a causa dei troppi obiettori di coscienza che impediscono alle donne di ricorrere all’Ivg, parlando di violazione dell’articolo 11 della Carta sociale europea che tutela il diritto alla salute.
Questo è il commento del ginecologo Giacomo Orlando, vice presidente della consulta di Bioetica e responsabile della sezione di Novi Ligure «la mozione presentata al comune di Alessandria vuole sferrare un attacco violento alla legge stessa attraverso un lessico a dir poco sconcertante: “uccisioni nascoste” a causa dell’utilizzo del pillola RU486, non verificabili, dice la mozione: falso, dato verificabilissimo!, “embrioni umani sacrificati”, “mancano all’appello 6 milioni di bambini”, e via dicendo: lessico che non considera affatto quanto stabilito dalla Corte costituzionale sin dal 1975 in linea con una lunga e articolata tradizione etico-giuridica, ossia che la tutela del nascituro non è equiparabile alla tutela dovuta alla donna e alle sue scelte».
Il numero di aborti, dal 1980 ad oggi, si è dimezzato di oltre il 50%: è corretto definirlo solamente un “leggero calo”? In più seriamente si sta cercando di dare la colpa alle donne che hanno abortito per il calo demografico che sta vivendo l’Italia?
O forse questo attacco diretto nei confronti delle donne cela in realtà una visione della denatalità molto vicina a quella dell’attuale Ministro della Famiglia e della Disabilità Lorenzo Fontana, convinto pro-life e antiabortista, il quale nel febbraio del 2018 ha scritto un libro insieme all’ex presidente dello IOR (comunemente conosciuta come Banca Vaticana), Ettore Gotti Tedeschi, con prefazione di Matteo Salvini, dal titolo “La culla vuota della civiltà. All’origine della crisi”. In questo libro – come scrive il giornalista Valerio Renzi – i due autori intravedono due problemi fondamentali alla base del calo demografico “da una parte individuano un problema di sostegno alle madri e di incentivi strutturali alle famiglie numerose (su cui si concentrano proponendo un welfare tutto centrato esclusivamente sulla famiglia e sull’etnicità), dall’altro individuano un problema culturale: in Occidente si fanno meno figli per colpa della rivoluzione sessuale, della distruzione dei valori tradizionali, dell’emancipazione della donna e, ovviamente, della libertà di abortire.”
Comunque ci pensa nuovamente la Consulta di Bioetica a smontare questa tesi secondo cui la legge 194/78 sarebbe la causa dell’attuale crisi demografica:
«con Tasso di Fecondità Totale (TFT) si indica il numero medio di nati vivi per donna messo in rapporto col numero totale dei nati vivi in un determinato periodo ditempo (di solito un anno) e col numero totale della popolazione femminile in età feconda (convenzionalmente tra i 15 e i 50 anni) nello stesso periodo.
In Italia, nel 2017 (dati ISTAT 2018) è stato attorno a 1.34% con un totale di 458.151 nati: se a questo numero si aggiungessero anche i 150.000/annui mancanti all’appello per la 194/78, il TFT passerebbe a circa 1.78%, ancora ben al di sotto del soglia del tasso di sostituzione, la cui soglia più bassa è 2.10%. Sulla scorta di questi numeri è sciocco dire poi che la legge 194/78 avrebbe favorito il “ricorso all’aborto quale strumento contraccettivo”.»
Basta una tabella ISTAT per smentire questa affermazione che è assolutamente falsa: infatti dai dati ISTAT è possibile notare come il numero delle IVG tra le minorenni sia in realtà diminuito.
Forse perché non esistono degli studi indipendenti che ne certifichino la correlazione. Rimando alla lettura dell’articolo in nota per comprendere la difficoltà della tematica, e alle dichiarazioni in merito di Giovanni Fattorini, ginecologo della Società italiana studi di medicina della riproduzione: « sarebbe forse più opportuno riferirsi a situazioni che presentano maggiori rischi, che dovrebbero perciò essere tenuti presenti, rispetto ad altre. In quest’ottica, − continua −potremmo pensare di identificare soggetti potenzialmente a rischio e le condizioni di rischio».
Mi permetto di citare, per ragionare di questo paragrafo, un articolo di Pasionaria.it che credo affronti il tema in maniera abbastanza completa. Il testo che segue può forse essere integrato, a partire dalla nostra mozione con un quesito: quali sono questi centri di eccellenza? Le cure a cui si fa riferimento sono accessibili a tutte le donne?
“In Italia il ministero della Salute nelle sue linee guida per la Nipt (Non invasive prenatal test) del 2015, afferma che «il fine del test prenatale è quello di fornire informazioni corrette alle coppie che lo desiderano, perché le successive scelte e decisioni, qualunque esse siano, siano fondate su conoscenze il più possibile accurate, precoci e basate su protocolli che non mettono a rischio la gravidanza».Se quindi l’obiettivo dello screening prenatale è quello di fornire informazioni corrette e consulenza accompagnando la donna/coppia, è fondamentale che l’informazione fornita sia scevra da qualsiasi tipo di giudizio o condizionamento etico o religioso, per poter lasciare libertà di scelta, limitandosi a fornire informazioni e supporto psicologico sia che si proceda verso l’aborto, sia che si scelga di portare avanti la gravidanza”.
Ecco il vero punto focale su cui le battaglie transfemministe stanno ponendo l’accento ormai da decenni: è giusto continuare a garantire l’obiezione di coscienza a chi sceglie una professione di questo tipo e lavora in una struttura pubblica, non confessionale? O forse, come affermato da Carlo Flamigni, già agli assunti dopo il 1978 non si sarebbe dovuto permettere di appellarsi a quella norma, prevista per chi già stava svolgendo la professione. Chi sceglie di occuparsi della salute delle donne deve essere estremamente consapevole del fatto che anche l’interruzione sicura di una gravidanza è inclusa nel concetto di salute. Senza contare il fatto che dietro il ricorso massiccio all’obiezione ci son ragioni di opportunismo: basti pensare alla difficoltà di carriera per chi non obietta e i casi di burn- out che colpiscono ginecologi non obiettori che si ritrovano, in particolar modo nei piccoli punti nascita, a essere gli unici non obiettori e quindi a operare quasi solo Ivg. Come scrivono Giorgia Serughetti e Cecilia D’Elia nel libro “Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne nel nuovo millennio”, «un comportamento che per sua natura dovrebbe segnalare un’eccezione, dettata da profondi convincimenti morali, è diventato invece maggioritario. C’è un segnale culturale che va indagato. Il conformismo antiabortista mette in discussione ogni giorno l’equilibrio della sentenza della Corte Costituzionale del 1975 e indebolisce la tutela della salute delle donne, ma inficia anche il valore della scelta del singolo obiettore che intenda rispondere alla propria coscienza, mina la credibilità e la sincerità del suo convincimento. Se l’obiezione di coscienza personale è potuta diventare obiezione di struttura, l’articolo 9 finisce per mettere in discussione l’intera legge. »
Falso. Nei dati ISTAT sono riportati sia gli aborti farmacologici sia quelli chirurgici e, come già riportato sopra, è evidente che vi sia stato una progressivo calo del numero di aborti negli anni. In più, come affermato dal ginecologo Giacomo Orlando della Consulta di Bioetica si afferma che “con la diffusione della RU486 sono cresciuti gli aborti”, mentre in realtà – com’è noto – sono diminuiti“ . Per finire, anche qui troviamo un linguaggio tutt’altro che laico: infatti, così come il movimento per la vita ciclicamente presenta in Parlamento disegni di legge per l’introduzione del diritto all’obiezione di coscienza da parte dei farmacisti che recano in apertura un passo di un’enciclica papale, allo stesso modo, in un documento pubblico come una mozione presentata all’interno di un consiglio comunale, si ritrovano formule come “la cultura dello scarto” appartenenti al gergo cattolico. Si parla di “cultura dello scarto” in riferimento al presunto abbandono della donna proprio quando avrebbe più bisogno di aiuto. Alla base c’è l’idea che le donne non possano essere realmente consapevoli delle proprie scelte. Forse perché, come scriveva il giurista Stefano Rodotà, in un articolo uscito su “La Repubblica” nell’aprile del 1995, consegnare alle donne la piena consapevolezza della scelta significa “riconoscere la particolarità e l’irripetibilità della situazione che lega la donna al concepito, la specialissima natura del potere di procreare”.
Ed ecco infine le tre conclusioni che dovrebbero necessariamente seguire alle premesse appena elencate.
La falsa positività che traspare leggendo la mozione è ciò che è necessario demistificare.
Non sussiste la necessità di destinare dei fondi pubblici ad associazioni private che utilizzano mezzi dubbi per portare avanti una battaglia ideologica. Se si vuole prevenire il ricorso all’aborto è necessaria una strutturata educazione sessuale nelle scuole e non progetti a spot, garantire una contraccezione gratuita per tutte e tutti, senza limiti di età, supportata da campagne di sensibilizzazione. Se si vuole davvero valorizzare la parola vita, bisognerebbe garantirne una migliore a donne, uomini ed relativi figli attraverso politiche sociali adeguate, come ricordato dal collettivo Non una di meno: « Alessandria vuole dichiararsi “città a favore della vita”? Bene, allora che si inizi a intervenire sulla quotidianità delle persone che la abitano, che si abbassino le rette degli asili nido, che si rendano gratuiti i servizi per l’infanzia, che si garantiscano case popolari per chi ne ha bisogno, che si smetta di vincere ogni anno il record di polveri sottili nell’aria, che si renda il centro un luogo a misura di bambina/o e non di auto, che si garantisca a quelle donne che scelgono di avere dei figli di crescerli in un ambiente sano e accogliente. E che si lasci alle donne che invece non vogliono figli la loro libertà di scelta».
Nell’archivio custodito all’interno della Casa delle donne c’è un articolo de “Il Monferrato”, datato 20 ottobre 1980 intitolato “Ancora polemiche sull’aborto”.
Le donne erano già esauste nel 1980 di dover difendere i propri diritti all’autodeterminazione e alla salute, possiamo dire di esserlo anche oggi ma allo stesso tempo determinate come allora a non retrocedere di un passo.
Domenica 18 novembre alle 18 ci sarà una fiaccolata per le vie della città il cui fine è chiedere il ritiro della mozione; il collettivo Non una di meno e centinaia di cittadine e cittadini si sono detti pronti a presentarsi e bloccare lo svolgimento del consiglio comunale tutte le volte in cui la mozione sarà all’ordine del giorno, così come successo mercoledì 14.
Autrice
Lorenza Neri
ph. Paola Agosti – Manifestazione per la depenalizzazione dell’aborto – Firenze, gennaio 1975