Ormai da parecchi giorni nel vasto mondo dei social e nel ristretto universo della carta stampata si discute e ci si accapiglia intorno alla risoluzione del 19 settembre del Parlamento europeo, intitolata “sulla importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”. Il documento approvato dall’aula di Strasburgo – nel goffo tentativo di narrare una storia direzionale e progressiva dell’Europa – ha indotto più di una critica sulle premesse storiche e sulle conseguenti conclusioni politiche. Partendo da un’interpretazione equivoca dei rapporti tra Germania e Russia durante il secondo conflitto mondiale, la risoluzione accomuna nazismo e comunismo (confondendo dottrina e regime) ed espone le vittime dei due totalitarismi come l’unica fonte per una memoria condivisa in Europa, operando una netta cesura nei confronti del conflitto (anche) politico come forza motrice della Storia. Le polemiche più frequenti, imbastite da storici e non, hanno quindi riguardato la lettura storica del patto Molotov-Ribbentrop come “causa prossima” della seconda guerra mondiale, e in seconda analisi l’accomodante interpretazione – alle esigenze europeiste – del comunismo e del suo sviluppo in Russia e nei paesi dell’Est Europa.
Le riflessioni che seguiranno non intendono indagare storicamente gli effetti politici del patto di spartizione geopolitica tra Russia e Germania del 1939 o sottolineare le differenze esistenti, tra i diversi paesi europei, di un’ideologia politica che se ha rappresentato per molti una speranza e una spinta ideale al cambiamento, ad Est ha indubbiamente provocato anche povertà e sofferenze. Ma se per lo storico la verità è sempre una costante ricerca, un avvicinamento progressivo alla conoscenza, una continua possibilità d’indagine; per il politico la verità storica è legittimazione dell’esistente, terreno identitario da spartire e giudizio etico da imporre. Su questa linea di demarcazione tra storico e politico, tra storia e memoria, si gioca la partita dell’uso politico ed istituzionale della storia, che ha avuto nella risoluzione del Parlamento europeo un pessimo esempio.
Se il passato può essere compreso storicamente e quindi con le contraddizioni, i conflitti e le discordie che lo caratterizzano, può avvenire solo attraverso la giusta distanza: quello spazio temporale ed emozionale tra i fatti e la loro comprensione. Quando è la politica come istituzione a servirsi della storia, la distanza si elimina ed il presente egemonizza il passato costruendo un modello monopolistico dell’uso della storia, dove la narrazione istituzionale prevale sul racconto polisemico dei fatti. Così nascono le memorie artefatte, immutabili e apolitiche, proprio come il testo licenziato dal Parlamento europeo che vorrebbe essere il primo mattone di una costruzione ben più ampia: una memoria collettiva europea. Infatti le intenzioni dei parlamentari europei e delle oligarchie che rappresentano, preoccupano più delle banalizzazioni storiche e delle interpretazioni fallaci del passato. Non può passare inosservata l’operazione politica sottostante alla risoluzione sulla memoria europea: espropriare dal futuro qualsiasi alternativa alla democrazia liberale e incardinare l’identità europea sull’eliminazione delle ideologie politiche.
L’obiettivo principale quindi non è l’educazione delle nuove generazioni a una rinnovata conoscenza attraverso la memoria, ma è un basso calcolo politico: un monito ai rigurgiti autoritari dei paesi dell’Est. Si tagliano le gambe a qualsiasi ipotesi di cambiamento al fine di mantenere i paesi ex sovietici sotto la rassicurante orbita europeista. Così fuori dall’Europa non c’è democrazia, fuori dal liberalismo non c’è politica, fuori dal capitalismo non c’è alternativa. In sostanza il messaggio è molto più chiaro della mistificazione storica messa in atto, il mondo in cui viviamo è difficilmente migliorabile, è inutile immaginarsi un mondo completamente diverso ma anche migliore; la ricerca di un cambiamento, anche rivoluzionario, non è solo fuori dalla politica contemporanea, ma dalla Storia. Il presente deve essere quel tempo eterno, in cui invece la violenza e le repressioni sono confinate nel passato – tanto da condannare quanto da censurare – proprio al fine di pacificare qualsiasi istanza di evoluzione politica o sociale che possa ledere le “tranquilli” sorti del continente europeo.
Su questo impianto culturale la risoluzione del Parlamento europeo chiede agli Stati membri di impegnarsi a promuovere una “cultura della memoria condivisa” nella “nostra storia comune”. In altre parole è il disperato tentativo delle istituzioni europee di costruire un’identità europea non sulla contrapposizione rispetto a ciò che non è Europa, ma sui tratti comuni dell’appartenenza alla storia europea. Ma se non può esistere un’identità senza una memoria in cui affondare le proprie radici, non può essere questa la memoria condivisa su cui i popoli europei possano riconoscersi. Occorre quindi chiedersi se è attraverso il passato che si costruiscano i ponti per il futuro, o se le grandi sfide del presente – l’ambiente, la solidarietà verso l’immigrazione e il ripudio delle guerre – non possano diventare il vero legame tra europei.
Autore
Andrea Sofia