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Minori: nessuna emergenza, è il solito populismo giustizialista

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Prima gli accattoni, i senza tetto, le donne, i migranti, chi solidarizza con i predetti e ora, nel mirino della Lega, anche i bambini.
Prosegue così l’offensiva reazionaria del Governo anche se questa volta – strano ma vero – con una proposta di legge ordinaria anziché con il solito infingardo strumento della decretazione “d’urgenza”.
Lo scorso febbraio infatti, su iniziativa del deputato leghista Cantalamessa (più altri), è stata depositata alla Camera la proposta di legge n. 1580 che si ripropone di modificare alcune norme in materia di diritto penale minorile, in particolare escludendo la concessione di certe premialità (come la riduzione di pena) tipiche del processo penale minorile qualora il reato sia commesso nell’ambito dell’associazionismo mafioso e abbassando l’età imputabile da 14 a 12 anni.
Ad oggi infatti, in base alla normativa italiana, dai 18 anni in poi un soggetto è considerato pienamente imputabile mentre, al di sotto dei 18 anni, possono individuarsi due fasce di età.
Prima dei 14 anni, il soggetto è sempre, completamente, non imputabile, ai sensi dell’art. 97 c.p.. Per gli infraquattordicenni vige, dunque, una presunzione assoluta di incapacità, che non ammette cioè prova contraria. Tuttavia, se il giudice accerta la pericolosità sociale del minore autore di reato, potrà assoggettarlo ad una misura di sicurezza (per esempio, il riformatorio giudiziario).
Per l’applicabilità della misura di sicurezza non vi è alcun limite e, dunque, in linea teorica, potrebbe essere applicata anche ad un bambino di cinque anni; di fatto, la valutazione è lasciata al buon senso del giudice. Perché possa essere stabilita una tale misura occorre, però, che la pericolosità sociale del minore sia stata concretamente accertata. Inoltre, per quanto riguarda la nozione stessa di pericolosità del minore, l’art. 37, comma 2, del D.P.R. n. 448/1988, stabilisce requisiti più specifici rispetto a quelli che integrano la nozione comune di pericolosità sociale ricavabile dall’art. 203 del codice penale riferibile, quindi, agli adulti e ciò proprio in ragione del carattere speciale della materia minorile.
Per altro verso, nei confronti del minore di anni 14 che abbia commesso reati e sia ritenuto “socialmente pericoloso”, il Tribunale per i minorenni può, in sede civile, imporre misure amministrative, rieducative e trattamentali, come l’affidamento del minore ai Servizi Sociali o, nei casi più gravi, il collocamento in una comunità (art. 25 R.D. n. 1404/1934).
Tra i 14 e i 18 anni, invece, ai sensi dell’art. 98 c.p. sarà necessario un esame caso per caso onde accertare se il soggetto aveva la capacità di intendere e di volere al momento del compimento del fatto reato.
Per ciò che attiene il significato di tali locuzioni, la capacità di intendere può identificarsi con la capacità di sapersi muovere nella realtà sociale comprendendone il significato, mentre la capacità di volere rappresenta l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi.
Per i soggetti minori di 14 anni in realtà si considera esclusa non tanto la capacità di intendere, che solitamente si ritiene venga acquisita anche prima di compiere quattordici anni, quanto piuttosto quella di volere, dalla quale, infatti, si fa dipendere la formazione del carattere e della personalità. E, dal momento che la personalità del minore di quattordici anni è ancora in fieri, si cerca di non impedirne il regolare sviluppo prevedendo, appunto, la non applicazione della sanzione penale.

Questo è ciò che l’ordinamento italiano, ad oggi, prevede, ma le cose potrebbero cambiare con la proposta di legge avanzata dalla Lega e fortemente auspicata dal Ministro dell’Interno, seppur non rientrante nel “contratto” di Governo. Salvini, infatti, ritiene che l’abbassamento dell’età imputabile possa rappresentare lo strumento attraverso cui neutralizzare il fenomeno delle c.d. “baby gang” che, anche grazie ad una narrazione mediatica sempre incentrata sullo stato d’emergenza, ha ormai ingenerato nell’opinione pubblica una percezione di insicurezza che non ritrova riscontro nei fatti. Ancora una volta, prende il sopravvento quel populismo giustizialista che parla alla pancia delle persone, radicando la convinzione che la repressione penale sia il mezzo più adeguato per assicurare la difesa sociale – poco importa se la si mette in atto sulla pelle dei bambini – ma sopratutto si pretende di risolvere i problemi senza andare alla radice degli stessi.
Tuttavia, a onor del vero, l’idea di ricorrere allo strumento della repressione penale per contrastare la criminalità minorile non è nuova: infatti, proposte di legge volte ad abbassare il limite dell’età imputabile tornano ciclicamente ad essere avanzate (l’ultima, nel 2006, di Biondi, deputato di Forza Italia) salvo poi arenarsi nei meandri del Parlamento, forse anche grazie alle forti avversità mostrate da numerosi giudici e operatori minorili. Lo spunto per tali iniziative parlamentari è tendenzialmente offerto da fatti di cronaca, scientemente enfatizzati anche dall’informazione mainstream e propinati allo scopo di stimolare una reazione punitiva da parte dell’opinione pubblica che reclama un radicale cambiamento di sistema.
La proposta di legge n. 1580, così come quelle che l’hanno preceduta, parte dal falso presupposto che la criminalità minorile rappresenti un’emergenza cui sembra possibile porre rimedio solo ed esclusivamente con l’abbassamento dell’età imputabile e, dunque, con una politica repressiva.
Insomma, se i giovani delinquono, autonomamente o perché reclutati dalla criminalità organizzata che conta proprio sulla loro impunibilità, l’unica soluzione di senso (per la Lega) è quella di far sì che la legge consenta di perseguirli penalmente. In altre parole, spalancare le porte del sistema penale anche a bambini di 12 anni è tutto ciò che la classe governativa è disposta a fare per affrontare la falsa emergenza della devianza minorile.
La proposta ha immediatamente incontrato lo sfavore di giuristi ed operatori sociali che da molto tempo sostengono l’assoluta inutilità di misure volte ad abbassare il limite dell’età imputabile: infatti, l’abbassamento della soglia di punibilità non ha effetti né general-preventivi, né special-preventivi. Anzi, non solo una soluzione del genere è priva di alcun riscontro in merito alla propria efficacia, ma addirittura rischia di rivelarsi controproducente. Inserire in così tenera età un soggetto nel circuito penale, sul falso assunto che il predetto abbia pienamente compreso il valore delle proprie azioni, non produrrà altro risultato se non quello di stigmatizzazione dello stesso. L’aver anticipato (rispetto al passato) il compimento di certi atti delinquenziali non è significativo di maturità da parte del minore e la mancata consapevolezza dell’atto antigiuridico posto in essere condurrà inevitabilmente a non comprendere nemmeno la sanzione penale inflitta dall’ordinamento.
É proprio in questi termini che si è espressa l’Unione Nazionale delle Camere Minorili, non solo osservando che “le motivazioni addotte dai proponenti il disegno di legge non trovano alcun supporto sostanziale nei dati ministeriali riguardanti la criminalità minorile in Italia che, come noto, risulta essere stabile se non in leggero calo, grazie ad un sistema di giustizia minorile all’avanguardia, tanto da essere fonte di ispirazione della direttiva 2016/800/UE sul giusto processo minorile europeo”, ma altresì rilevando che obiettivo condiviso da tutti gli operatori specializzati del settore di diritto minorile è quello della tutela delle persone minori di età nonché la prevenzione dei reati minorili e che tale obiettivo non si persegue abbassando la soglia di punibilità. Infatti, l’intero sistema processual-penalistico minorile è – e dev’essere – informato al superiore principio della tutela del minore, così come ricavabile tanto dalla nostra Carta Costituzionale (art. 31 Cost.) quanto dalle fonti normative internazionali quali, per citarne alcune, la Convenzione Onu sui Diritti del Fanciullo del 1989 o le Linee guida delle Nazioni Unite sulla Prevenzione della delinquenza minorile (c.d. Regole di Riyadh) adottate nel 1990.
Anche l’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e la Famiglia ha espresso il proprio parere negativo relativamente al disegno di legge n. 1580 rilevando che i presupposti su cui poggiano le considerazioni dei proponenti la modifica legislativa non trovano riscontro nei dati a disposizione del Ministero della Giustizia e in quelli risultanti dal confronto con gli altri Paesi europei, dall’esame dei quali emerge una situazione della giustizia penale minorile italiana stabile quanto ai numeri, se non in calo e, in ogni caso, di gran lunga meno allarmante di quella relativa a sistemi giudiziari che hanno da tempo fissato un’età per la punibilità penale molto precoce come il Regno Unito, la Francia, gli USA, l’Olanda.
Dunque, stando a quanto affermato dagli addetti ai lavori, in Italia non esiste alcuna situazione emergenziale che riguardi la devianza minorile. Piuttosto, gran parte delle situazioni riportate dai media e che colpiscono l’opinione pubblica, altro non sono che la dimostrazione delle gravissime responsabilità dello Stato circa l’assenza o l’insufficienza di investimenti per le politiche sociali a favore di minorenni, famiglie e contesti sociali determinati, in materia di prevenzione, inclusione, educazione. La colpevole assenza di sostegno alle comunità locali, agli ambienti di crescita, all’educazione (scuola in primis), alla formazione, e l’assenza di futuro e di prospettive credibili che si riscontrano in particolar modo in alcuni contesti non si possono risolvere fomentando paure e ricorrendo a pseudo-risposte di ordine penale – punitive e detentive – per bambini di 12 anni.
Ciò che si stenta ancora a mettere a fuoco è che alla base di ogni comportamento criminoso da parte di un adolescente vi sono bisogni esistenziali, educativi, emotivi, affettivi, materiali, insoddisfatti e una gravissima assenza e carenza del mondo degli adulti in senso lato. Si trascura di pensare che la commissione di un reato da parte di un ragazzino è l’espressione di un fallimento, non del ragazzino, ma del mondo adulto che non gli ha saputo garantire quel benessere cui ogni minore avrebbe diritto.
La difesa sociale dalla devianza e dalla criminalità minorile non si realizza attraverso interventi penali stigmatizzanti e incentrati su un’ideologia di sanzioni carcero-centriche, bensì cercando, con forme diverse ed, ove necessario, con nuove progettualità, di ricostruire un itinerario educativo che, non sempre per colpa dell’adolescente, è stato interrotto.
Se, però, a distanza di 20 anni dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 448/1988 – che oggi, comunemente, viene chiamato il codice di procedura penale minorile – ancora quasi il 15% dei Comuni Italiani è sprovvisto della figura dell’assistente sociale; se, ancora, nelle nostre scuole, in barba a tutte le riforme legislative, mancano i fondi per gli insegnanti di sostegno, per le nuove figure degli educatori e dei mediatori culturali per gli scolari di etnia diversa, se tutto questo è anche solo parzialmente vero giacché, tra l’altro, si trova sotto gli occhi di tutti, allora bisogna riconoscere, con onestà intellettuale, che la difesa sociale contro la devianza minorile non si raggiunge mettendo in carcere anche il dodicenne e che l’attuale insufficienza di mezzi, di capacità e di interventi rieducativi nei confronti del preadolescente impone, non già la soppressione degli stessi, bensì una loro riforma sostanziale, purché non si pretenda di farla a costo zero, senza dover imboccare la scorciatoia del ricorso ancora più massivo all’intervento penale il quale, a sua volta, se privo di strutture serie di recupero, può solo ridursi ad una segregazione carceraria che lascia irrisolti tutti i problemi del ragazzo, dei suoi genitori e del suo quartiere.
L’abbassamento a 12 anni della soglia dell’imputabilità apre la porta al rischio, ancora una volta, di scaricare sul giovane responsabilità che non sono sue o che non sono solo sue, e di punire solo lui anche per le responsabilità (per omissione) di chi era preposto alla sua educazione, di chi era istituzionalmente preposto a prevenire e ad intervenire sulla devianza prima che quest’ultima si trasformasse in delinquenza ed, infine, per le responsabilità di uno Stato spesso assente sul territorio, riformista ma solo a costo zero e, per di più, dotato dell’arrogante pretesa di poter difendere i “sacri valori” e risolvere la crisi sociologica dell’istituto della famiglia solo grazie alla crociata contro ogni forma di famiglia di fatto.

Autrice

Beatrice Guasta

ph. Banksy – “No Ball Games”