Un vecchio motto che alcuni con un trascorso assimilabile al mio non faranno fatica a ricordare suonava “Forward the revolution”. “Manda avanti la rivoluzione”, “accelera il cambiamento”.
Per ora limitiamoci ad un passo indietro storico, uno sguardo d’insieme agli albori di una sottocultura da tanti (e a ragione, n.d.r.) definita l’ultima realmente incidente nella società: esteticamente, musicalmente, politicamente, radicalmente.
Erano gli anni novanta e qualcosa si coagulava mescolando tarda cultura neo-hippy con la tribalità artificiale del beat della musica elettronica caricandosi degli innesti post-industriali delle periferie inglesi che andavano sfasciandosi sotto il peso del tatcherismo che trionfava consumando corpi e inquinando territori.
In un attimo inidentificabile nonostante date e nomi di luoghi quel qualcosa innalzava la propria non-bandiera, decorata con la spirale e il numero 23, guidando un qualcosa, che con la radicalità di suono, immagine e messaggio spezzava la continuità consumistica del neoliberismo spinto delle metropoli che danzavano a vodka e paillettes nei clubs da 15 sterle ad ingresso riservato.
Campi aperti, ex- capannoni industriali, docks nel pieno centro della city diventavano per una manciata di ore l’alternativa al delirio capitalistico del consumismo da entertainement per creare un’altra forma di delirio: aperto, orizzontalmente dedicato alla moltitudine e rivendicato nelle modalità di approccio, attuazione e spegnimento.
Una vitalità immediata, istantanea, a cavallo del beat sintetizzato nel silicio e condensata dai magneti del soundsystem che parlava di qualcosa contro ed era in grado di proporsi realmente come alternativa ad uno specifico contesto della società del consumo.
Quella stagione dura il lampo di qualche anno, una manciata di mesi tanto intensi da coagulare quello specifico situazionismo nella teoria del pensiero politico di Hakim Bey e della T.A.Z., la zona temporaneamente autonoma.
La T.A.Z. è quella tattica socio-politica atta alla creazione di porzioni di spazio fisico temporaneamente autogestiti col proposito specifico di eludere le strutture e le istituzioni formali imposte dal controllo sociale.
Il connubio è perfetto: la teorizzazione di un sistema di relazioni sociali non gerarchizzato è quello di concentrarsi sul presente e sospendere ogni giudizio dai meccanismi che sono stati imposti su di essa, il rave è il momento esteso, il presente continuo dello spazio-tempo creato dall’alchimia di suono e corpi.
Ovviamente la teoria accompagna, ma non guida quello che comincia ad autodefinirsi un movimento tracciando ed immediatamente confondendo i propri limiti e confini politici e culturali. Le carovane si spostano, la festa continua, il free party nasce, esplode e si spegne nell’arco di una notte, ogni notte.
La teoria, la politica, non guida, accompagna solo, ma tant’è.
Il 3 novembre del 1994 a due anni dai fatti di Castlemorton, al termine di un processo tra i più lunghi e costosi della storia legale inglese, viene emanato il Criminal Justice and Public Order Act 1994, il giro di vite contro l’organizzazione di party liberi ed illegali; i soundsystem, le crew espatriano: Francia, Repubblica Ceca, Spagna, anche Italia.
Non si può fermare il rave.
Ancora, la politica accompagna il rave, e così i Desert Storm (tekno-tribe di Glasgow) nel bel mezzo del conflitto balcanico vanno in Bosnia, a Sarajevo, attraversando la Croazia distrutta per portare una vagonata di aiuti umanitari e non solo, portano anche il party, il divertimento, lo stacco, il momento di una notte lontani dalla guerra e dalle bombe.
Nessuna retorica, è successo davvero.
In Italia, più che in altri posti d’Europa, l’approccio è politicizzato, un po’ perchè le tribe si incontrano con una specificità politica dell’autogestione tutta italiana, i Centri Sociali Autogestiti e/o Occupati, un po’ perché il terreno fertile già c’era nella Bologna e nella Roma della seconda metà degli anni novanta/prima metà dei duemila.
Oltre centomila persone danzanti in marcia alla street parade a Bologna, radio libere che a Roma martellavano l’etere col beat ossessivo, eventi piccoli, grandi, oceanici e mano mano qualcosa si perde.
Si perde? In qualche modo si, nel senso che quel senso politico che ha accompagnato il movimento senza guidarlo, si perde.
Quella formazione sociale collettiva relativamente strutturata si frammenta, si scolla.
Quella cosa, che ad un certo punto si autodefinì “movimento rave”, in quel determinato momento stava già trasgredendo la teoria politica sulla quale, in maniera del tutto scoordinata, si appoggiava; quell’anarchismo situazionista teorizzato da Bey fondava la sensatezza della destrutturazione nella non-formazione auto-alimentando il presente in un momento eterno.
Quel distacco, quel perdersi, ha operato, in maniera seppur incostante e diversificata, una
dittatura dell’eterno presente in ogni ambito d’appartenenza della sottocultura elevata a “movimento”, schiantando così ogni possibilità di azione sul reale che non fosse determinata a fissare l’istante in sè per sè.
Da lì, da quel (volutamente) non precisato momento la deriva è precipitosa, chi saprà dire quale è stato il momento? Ogni tempo delle subculture si riferisce al proprio passato mitizzandolo e correndo il pericolo di scadere nell’odiosa opzione di gerarchizzare i tempi ed i modi di un dato passato specifico
Nessun prima e nessun dopo, solo la necessità di comprendere che il tempo che viviamo, il tardo capitalismo, l’età ultraliberista, la società del consumo spinta all’eccesso ha trovato in un nulla, nello spazio temporale di qualche stagione la capacità di fagocitare, digerire ed espellere quel poco di sensato che “l’ultima controcultura” aveva da esprimere.
Quel senso di ribellione, quella volontà di superare i confini del divertimento imposto, costruito sull’ubriacatura folle degli anni ‘80, quella rivendicazione di appartenenza a quegli spazi, i capannoni, i warehouse, in cui la generazione precedente si era fatta schiava e che oggi diventano teatro di riti tribali di pura libertà si sono spiaccicati contro la capacità del neoliberismo di corrompere ogni forma di dissenso, di farla propria, di produrre schiavitù in ogni cosa, in ogni aspetto. Consuma, compra, vestiti, drogati, ricomincia. Non domandare dove sei, cosa stai facendo e perchè.
È un marasma. I concetti di base vengono perduti, poi ripresi, poi riperduti.
Si perde la possibilità di agire il contingente riempiendo di senso quell’attimo fino a renderlo infinito, lo si allunga semplicemente, stirandolo, ma rendendolo impalpabile, invisibile, inconsistente.
Succede così. Succede che dicembre del 2016 un rave nell’ex-FIAT di Mirafiori diviene per me motivo di tristezza: nessuna consapevolezza, non c’è un flyer, non c’è un cartellone che spiega, dove siamo, cosa stiamo facendo, cosa rappresenta quel luogo e perché ha senso che siamo qui dentro, a vivere invece che lavorare come schiavi.
È un episodio che mi colpisce a fondo. Rifletto, elaboro, discuto con tante persone, tantissime, per anni di questa cosa, del vuoto che abbiamo attorno. Meglio. Di come quel presente continuo non riesce ad essere riempito di senso.
Sta lì il nocciolo della questione, l’hardcore, per utilizzare un’immagine multifocale in questo contesto: il momento più alto, più sensato, ciò che tanti continuano a chiamare “movimento rave” lo ha raggiunto nell’istante primo, come è ovvio che sia per un rituale immaginifico che scatena la potenza del presente eterno. Quell’attimo istantaneo, senza un episodio cardine ma puramente non-fissato nella collezione di attimi che scrivono l’inizio del tutto: la rivolta contro quella parte di neoliberismo che schiacciava la creatività e la volontà di rivalsa; la fuoriuscita dalla subalternità legata al soldo, la rivoluzione come pretesto per fare “un po’ di fottuto rumore” (cit.). Quel pretesto che si fissa in un istante e che da allora è pura riproposizione di uno schema identico, abbellito, ricolorato, ricalcolato ma ridondante e quindi facilmente inglobabile dal Moloch, dal capitale, dal consumismo, che ne ha fatto semplicemente una nuova miniatura di sè stesso, e così in ogni tempo ed in ogni luogo con le sue proprie caratteristiche specifiche, la festa, le teuf, the party, assume al suo interno le stesse sporche malate logiche, gli stessi sporchi malati comportamenti ed habitus della società all’esterno. La forma politica base, l’autogestione, viene schiacciata, distrutta in una riproposizione ebete dei meccanismi di sopraffazione propri della società del consumo. Ogni possibilità di una collettività composta di corpi che annacquano la loro dimensione individuale nel collettivo viene annichilita dall’emergere delle individualità, riflettendosi nell’abbandono delle regole base dell’autogestione del presente: non si rispetta nè il “posto che ci ospita”, nè “sè stessi”, nè “gli altri”, una riproposizione degli schemi propri della società esterna.
Perduto quell’attimo, resta una miriade di istanti che compongono vite, a tratti le distruggono, in qualche modo ne fanno parte per tanti o pochi momenti, senza la possibilità che quell’attimo fissi nuovamente la possibilità di un presente che non sia un’isola di carta.
Ballare è un atto politico. La moltitudine che si coagula in un qui ed ora è un atto politico. La volontà collettiva di difendere o promuovere delle situazioni con una determinata connotazione sociale è un atto politico. Tutto ciò svuotato del senso di un’appropriazione teorica diffusa, come avrebbe potuto essere la rivendicazione dell’occupazione di un luogo di sfruttamento sopracitato, contribuisce al circolo distruttivo di quel presente infinito che non riesce ad essere mai più caricato di senso.
Autore
ph. Dimitri Zanelli – ritorno a casa 2018 serigrafia su carta