(avventure trenodimensionali per giovani autostoppisti)
a cura di: !DORMOZERO!
Storia n°9
Questo mese ho lavorato per la prima volta in un penitenziario.
Attraverso un mio vecchio professore di Voghera, che adesso dirige alcune scuole a Milano tra cui quella di San Vittore, ho potuto partecipare alla stesura di un progetto che coinvolgesse i carcerati nello sviluppo di un murales. Un’epopea senza fine.
Ci sono voluti circa otto mesi per avere i permessi di accesso allo spazio. Tutta la buona volontà che puoi avere si deve scontrare con la burocrazia e un sistema fatto di persone a cui non frega essenzialmente una beata fava di te e del tuo progetto.
La prima volta che sono arrivato a San Vittore son riuscito a vedere solo l’entrata. Penetro nella “hall”, consegno i documenti, metto nel cassetto cellulare, chiavi e qualsiasi oggetto vagamente contundente. L’appuntato, terronissimo, controlla tutti i documenti e quindi esordisce così:
“eee Zenelli me sa che oggi nun entri, qua nun ci stanno le autorizzazioni”
Per un problema di permessi che si erano smarriti nel percorso dalla segreteria alla “reception” non son potuto entrare. Un inizio scoppietante, fatto di bestemmie e caffè. Torno a casa a Torino col mio treno regionale incazzato nero. Ci son voluti altri due mesi prima di poter rientrare in possesso di un foglio di carta del cazzo firmato dal direttore.
“Come è possibile, che con tutte le scartoffie che ho compilato in questo ultimo anno non riesco ancora a vedere i carcerati” pensai.
Ero arrivato addirittura al punto di pensare a un gomblotto delle sfere più alte del carcere per non farmi portare a termine il progetto. Per la mia felicità, nonchè per la salute mentale che rischiava di saltare nel caso di un ennesimo rifiuto, finalmente un mese fa riesco a incontrare per la prima volta i carcerati. Ero agitato, febbricitante all’idea di dovermi confrontare con dei pregiudicati costretti tutto il giorno in celle minuscole da dividere in sei persone. Avevo paura di non riuscire a trovare più delle persone ma delle bestie, di non potermi sentire libero di essere me stesso, di dover soppesare le parole ogni volta per non rischiare di offendere nessuno, e invece…
Ci troviamo con questi quindici ragazzi, un po’ più giovani di me, in un aula minuscola. Stretti l’uno sull’altro i ragazzi ridono, scherzano, si prendono in giro, proprio come faccio io con i miei amici. Gli presento il progetto accompagnato dalla biografia del mio collettivo Idrolab in cui racconto del percorso dai rave e la musica Tekno all’occupazione di uno spazio con l’idea di costituire un laboratorio popolare libero per tutti e scopro che la metà di loro sono stati nelle fabbriche abbandonate a sentire musica elettronica, proprio come me. Mi sento quasi a casa.
Comincio a prendere confidenza, il professore che mi accompagna consiglia di dare del “lei” ai ragazzi, ma io me ne sbatto. Non sono un vecchio, non sono un tutor né un insegnante, ma un semplice ragazzo come i miei ospiti che solo per una serie di fortunate circostanze non sta scambiando una cella con altre tredici persone. E’ in questi casi che ti accorgi di tutto il culo che hai avuto nella vita e che basta un niente per finire male. Giovanni è proprio un’esempio calzante: beccato due volte a rubare in un negozio di belle arti per necessità di avere qualche strumento in più per disegnare, un anno di reclusione senza condizionale.
Cioè ma sapete quante volte ho derubato il brico di ogni sorta di pennello, pennarello, ricamabi per i rulli e spray acrilici. Dovrebbero darmi l’ergastolo, eppure ho sempre avuto la fortuna di non essere tampato. Tante volte le bravate le fai senza senno di poi, le fai perchè hai bisogno di trasgredire di dimostare al gruppo che non sei un pisciasotto. Le fai per puro edonismo, per una punta di nichilismo, per un bisogno egocentrico, per noia in fondo. Ma quando poi ti trovi davanti a dei giovani che hanno perso la propria libertà, cominci a pensare forte dentro al cervello che sei stato sempre e solo molto fortunato.
Cominciamo a dipingere il muro nello spazio dedicato all’ora d’aria: un rettangolo da ottanta metri quadri dove oltre al cemento puoi solo vedere quel cielo così grigio. L’angoscia nel sentire quella privazione, quell’ora d’aria che di libertà ha solo il volo degli uccelli sopra la tua testa, iniziano a martellarmi nella sfera cranica come un mantra ripetuto.
“Potresti esserci tu qua, potresti esserci tu qua, potresti…”.
Oggi quando dipingo un murales non sento più la stessa sensazione di libertà che sentivo a quindici anni nell’uscire di notte armato di spray e brutte intenzioni. Ormai sporcare i muri è il mio lavoro, ne sono appagato e spero di poterlo fare per sempre ma non c’è più la ricerca della scarica di adrenalina quando stai scappando dalla polizia. Oggi il segno è curato e il colore è steso a regola d’arte ma ricordo ancora i giorni in cui scavalcare un muretto era l’unica forma d’espressione concessa. Ecco per questi ragazzi privati di ogni libertà, questo progetto è stato un momento per riconquistare il tempo e superare quelle barriere fatte di ferro e metallo. Prendendo in mano la bomboletta e taggando il muro di un carcere sia io che loro abbiamo vissuto attimi di pura autonomia incontrollata. Nessuno di coloro che ci sorvegliava capiva cosa stavamo facendo e in quella forbice di inconsapevolezza abbiamo esercitato tutto il potere delle immagini che ci era concesso.
Ancora una volta sono sempre più vicino a capire chi sono, e mi accorgo che l’unico modo per riconoscermi è guardare il mio riflesso nello sguardo degli altri. Ci ho messo anni e ringrazio ognuno dei vostri occhi per avermi specchiato, e come dice Nerone:
“Milano è San Vittore un abbraccio a chi sta la dentro perchè Milano ad oggi un giorno è come cento.”
Dedicato a: Prof Cavagna, NikoMD, Paul, Frenk, Edith, Vincenzo e tutti i ragazzi di Milano.
Autore
!DZ!
ph. Angela