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La (contro)riforma Pillon e il ritorno del diritto di famiglia agli anni ‘50

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Articolo pubblicato integralmente su Pasionaria.it

Giù le mani dai bambini!», «Difendiamo i nostri figli!» erano alcuni degli slogan dei Family Day del 2015 e del 2016 contro le unioni civili e l’inesistente “ideologia/teoria del gender”. Il popolo di quelle piazze è riuscito a eleggere un proprio esponente, il senatore Simone Pillon della Lega, che ha proposto un disegno di legge che impone una visione reazionaria e fortemente maschilista del matrimonio, della genitorialità e dei rapporti tra uomini e donne.
Avvocato cassazionista specializzato in diritto penale e diritto di famiglia, per sua stessa definizione “papista”, Pillon è contrario al divorzio e all’aborto (“se una donna vuole abortire le offriamo somme ingentissime per non farlo e se vuole ancora glielo impediamo”), alla legge sull’omotransfobia della Regione Umbria (“questo protocollo consegna i bambini alle lobby gay”) e a qualsiasi legge che regolamenti le coppie dello stesso sesso (“la famiglia è quella naturale, le unioni civili le abolirei”).
Il ddl di cui è primo firmatario, in discussione in parlamento, è suddiviso in 24 articoli e ha lo scopo di modificare la legge sull’affido condiviso del 2006, introducendo principalmente quattro novità:
1. la mediazione civile obbligatoria in tutte le separazioni in cui siano coinvolti figli minorenni;
2. l’affido condiviso con tempi previsti paritari e doppia residenza o doppio domicilio dei figli;
3. l’abolizione dell’assegno di mantenimento, sostituito del mantenimento in forma diretta;
4. il contrasto alla cosiddetta “alienazione parentale” (sì, proprio quella Pas per la quale non esistono prove scientifiche e contro cui si battono da tempo i centri antiviolenza).
Per presentare questa iniziativa legislativa, Pillon ha usato espressioni come “uguaglianza e corresponsabilità genitoriale”, “bigenitorialità”, “interesse del figlio”, “progressiva de-giurisdizionalizzazione per rimettere al centro la famiglia e i genitori” ma negli articoli e nei commi di questo disegno di legge si nascondono insidie considerevoli per i diritti dei bambini e delle madri che hanno già messo in allarme associazioni femministe, centri antiviolenza, avvocat* e psicolog*.
Nella premessa del ddl, Pillon definisce l’attuale legge sull’affido condiviso un fallimento e cita Paesi come Belgio, Quebec e Svezia, dove l’affido condiviso supera il 30%, mentre in Italia si attesterebbe appena al 3-4%. Peccato che, come ben sappiamo, questo paragone non regga affatto in quanto, rispetto all’Italia, le nazioni citate hanno un maggior livello di parità di genere sia in ambito professionale che familiare, inferiori tassi di disoccupazione, specialmente femminile e diffuse politiche di welfare a tutela e sostegno della genitorialità. Nel nostro Paese invece le disparità economiche e occupazionali tra uomini e donne sono ancora molto forti, la disoccupazione femminile talmente alta da collocare l’Italia al penultimo posto in Europa.
Alla luce di questi dati appare del tutto evidente come le novità introdotte dal ddl Pillon rischino di scoraggiare soprattutto le donne dal separarsi, in particolare quelle con minori disponibilità economiche. L’abolizione dell’assegno di mantenimento al coniuge in favore del mantenimento diretto, l’obbligatorietà della mediazione familiare (percorso a pagamento, escluso solo il primo incontro gratuito, che può durare fino a un massimo di sei mesi), l’obbligo per il coniuge che abbia l’assegnazione della casa coniugale di corrispondere un canone d’affitto all’altro coniuge, rendono particolarmente gravosa da un punto di vista economico, una causa di separazione.
La mediazione familiare obbligatoria, in particolare, risulta incomprensibile, ingiustificata e nasconde aspetti fortemente problematici. Non si capisce perché debba essere imposta anche in casi in cui non sia realmente necessaria o voluta; di fatto con questo disegno di legge le coppie con figli minorenni che vogliono separarsi vengono commissariate dallo Stato attraverso l’imposizione di una figura professionale, per altro ricoperta dallo stesso senatore Pillon che è mediatore familiare. Nasce il sospetto che Pillon, più che al supremo interesse dei minori, si preoccupi prima di tutto dell’interesse economico proprio e della categoria professionale a cui appartiene. Inoltre, la mediazione familiare è vietata dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia il 19 giugno 2013, nei casi di violenza domestica in quanto non si tratta di un semplice conflitto tra i coniugi risolvibile con una mediazione, ma di violenza di genere. Le donne vittime di violenza si troverebbero quindi costrette paradossalmente a mediare con il proprio carnefice. Tutti questi elementi hanno spinto l’associazione D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), che gestisce oltre cento centri antiviolenza e case rifugio in tutta Italia, a lanciare una petizione su Change.org che, nel momento in cui scriviamo, ha raccolto oltre 70mila firme, e una manifestazione di piazza a Roma il 10 novembre, affinché il ddl Pillon venga ritirato.
Secondo il ddl, lo scopo della mediazione familiare obbligatoria e a pagamento è la compilazione di un piano genitoriale, una sorta di contratto in cui i genitori stabiliscono tutti gli aspetti educativi, formativi, le attività dei figli, le frequentazioni parentali e amicali, le vacanze e i relativi capitoli di spesa. Si introduce inoltre la doppia residenza o doppio domicilio dei figli presso le abitazioni dei genitori, dove “si garantisce comunque la permanenza di non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti”, senza che venga specificata alcuna distinzione di età o condizione di vita dei figli, siano essi lattanti, bambini o adolescenti. Ma come può il ddl volere il bene dei figli, se, citando Maddalena Cialdella, psicologa, psicoterapeuta familiare e consulente tecnico del tribunale di Roma “il bambino è “diviso” al 50 per cento?”

Il disegno di legge si prefigge inoltre di contrastare la cosiddetta alienazione genitoriale o parentale.
È bene ricordare che la cosiddetta Pas, ovvero la Sindrome da Alienazione Parentale, è una sindrome non riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, né dal Ministero della Salute. Il ddl introduce invece questo concetto e stabilisce attraverso gli articoli 17 e 18 che, qualora il figlio rifiuti il rapporto con uno dei genitori o un altro parente, il giudice può, pur in assenza di evidenti condotte dell’altro genitore, limitarne o sospenderne la responsabilità genitoriale, o disporre il collocamento provvisorio del minore in una casa-famiglia, in attesa che i servizi sociali o gli operatori della struttura indichino un piano per il pieno recupero della bigenitorialità. Non si fa, inoltre, alcun accenno alla possibilità che il giudice verifichi le motivazioni del rifiuto del figlio verso il genitore o il parente. E se il rifiuto fosse motivato da violenze e abusi?
Appare del tutto evidente che la (contro)riforma dell’affido condiviso, dietro la promessa di una maggiore parità tra i genitori, sia in realtà un tentativo di dissuadere le coppie a separarsi e divorziare e di far tornare il diritto di famiglia italiano agli anni ’50, sancendo la rivalsa del patriarcato sui diritti conquistati dalle donne a partire dagli anni ’70.
E il Movimento 5 Stelle come si posiziona rispetto alle legittime e inevitabili contestazioni che stanno convergendo sul disegno di legge? Due giorni dopo le polemiche sono intervenuti con una nota in cui dichiarano di volerne cambiare alcuni aspetti, anche se, nel corso di una diretta Facebook, il senatore Pillon ha dichiarato che “c’è unità di intenti, ci sono posizioni da conciliare, ma stiamo lavorando in sintonia”.
Il contrasto al ddl può rappresentare un’ottima occasione per dare vita a una battaglia ampia, condivisa e intersezionale a difesa dei diritti delle donne, dei bambini, dei padri responsabili e di tutte le famiglie.
Sul terreno dei diritti e delle libertà non si deve e non si può tornare indietro.

Autore

Matteo Nicola Bottino