“Pensavo che la mia vita fosse una tragedia, ma ora mi rendo conto che è una commedia.”
“Joker” di Todd Phillips è un film che ha catalizzato l’attenzione di critica e pubblico come forse nessun altro film negli ultimi anni, nell’era del post-post-moderno.
Dall’attenzione per il particolare atteggiamento registico nei confronti di un film sulle origini di uno dei più celebri villain della cultura moderna, all’hype scatenato dai media di mezzo mondo occidentale sul presunto pericolo che la messa sullo schermo di una parabola della follia, tanto contingente per la contemporaneità, avrebbe scatenato.
Joker è un personaggio tra i più iconografici e rappresentativi non solo del fumetto, ma dell’intera cultura contemporanea. La sua distintiva follia sociopatica lo ha reso adattabile di volta in vota al mondo che lo circondava; ed ogni autore che si sia cimentato nella sua rappresentazione ne ha fatto un archetipo in grado di criticare la società hic et nunc, con un piglio politico che la tabula rasa della personalità folle ed efferata riusciva a tradurre in linguaggio politico.
Il vuoto etico della follia di Joker è fondamentale per riempire di senso la sua figura, innestarla in un tempo storico che evidenzi la componente malata della storia. In un certo senso e con le dovute leggerezze, l’attribuzione di senso al personaggio folle e senza scrupoli è specchio della schizofrenia alimentata dalla società del capitale.
Trent’anni fa, Tim Burton, nel suo Batman, materializzava un Joker buffone e scriteriato che durante una parata multicolore gettava un mare di banconote ad una folla berciante in un delirio di luci, colori ed effetti speciali: un’allegoria palese dell’ubriacatura che il capitalismo indiceva con le sue false promesse di una ricchezza sconfinata per tutti e per sempre, a seguito del crollo del muro di Berlino.
Che Burton fosse perfettamente in grado di produrre una critica del momento politico mondiale si è palesato nel secondo Batman burtoniano, in cui il nemico filmico è il Danny De Vito nei panni del Pinguino ma che in realtà è il magnate capitalista Max Shrex, personaggio che incarna tutti i lati peggiori del capitalismo: inquinatore della città di Gotham con i rifiuti tossici della sua industria tessile, omicida di un vecchio socio in affari, affarista senza scrupoli che con la costruzione della nuova centrale elettrica vuole, come da tradizione, privatizzare il profitto e socializzare le perdite.
Un buon archetipo, quello messo in scena da Tim Burton, favolistico come nella tradizione della sua poetica cinematografica ma abbastanza ironico nella sua critica lieve.
Nulla a che vedere con il Joker di Nolan.
Il Joker, interpretato da Heath Ledger nei due film “Il Cavaliere Oscuro” e “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno”, è un folle, completamente folle, un malvagio puro, dedito al caos, la cui messa in pratica violenta serve a svelare la falsa stabilità dell’ordine.
Per il Joker di Nolan, l’ordine delle istituzioni e delle regole è fasullo, quindi ci vuole disordine, caos, violenza, perché queste ultime sono giuste, orizzontali, tendono a risolvere il conflitto insito nell’ingiustizia delle istituzioni tramite la degenerazione della struttura stessa.
Un ragionamento, quello che il reazionario Nolan applica al personaggio, che giustifica il pensiero classico della destra per cui la rigida organizzazione gerarchica è l’unico modo di organizzazione politica possibile dato che la massa è un informe aggregato di istinto senza ragione.
Ne “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” Nolan svela al meglio la sua reazionaria ottusità facendo di Heath Ledger un Joker totalmente al servizio dell’immaginario che sovrappone rivolta a caos. Nella Gotham di Bale contro Ledger i problemi sono gli stessi della società reale: servizi inesistenti, immenso divario ricchi-poveri, inquinamento irreversibile, ingiustizia sociale estrema. Giustamente, i subalterni si ribellano; ma la ribellione è una furia cieca fatta unicamente di violenza, il “popolo” è una chimera amorfa il cui capo, appunto il Joker, è un folle senza nulla di umano. Il popolo che si ribella non avanza istanze di cambiamento e non rivendica giustizia, nel linguaggio di Nolan, ma pratica solo la violenza più oltranzista: Nolan anche qui, e meglio, veicola, tramite la personificazione del caos e desumendola nel Joker, la sua idea politica di necessità di gerarchizzazione verticale tipica del pensiero reazionario di destra.
Trent’anni dopo “Batman” ecco “Joker”. L’ultimo Joker e in qualche modo quello definitivo, un po’ perché quello di Phillips esula dalla continuity classica dell’universo DC Comics per raccontare le origini del personaggio in una maniera più legata ad un certo cinema d’autore. Un po’ perché l’intepretazione di Joaquin Phoenix è davvero “definitiva” in senso attoriale, fisicamente e tecnicamente parlando.
Il personaggio è caricato di male: vive una marginalità sociale spiccata, ha un passato fatto di abusi e un presente di miseria comune a milioni di persone nel mondo Occidentale, negli Stati Uniti in particolare.
Se si può fare un paragone tra Arthur Fleck e Travis Bickle di “Taxi Driver”, trovando nella comunanza della marginalità sociale lo sfociare nella follia di una personalità debole e in balia della tempesta; è altrettanto vero che si deve scostare la follia di uno da quella dell’altro: quella di Fleck è una follia estrema, a tratti scontata perché origina in un abisso di dolore e disagio senza riscatto; quella di Bickle era una follia più complessa, meno iperbolica, fatta di piccoli fallimenti quotidiani che conducono al delirio senza passare per l’abisso.
Ancora una volta il personaggio si presta magnificamente per diventare un’allegoria della situazione socio-politica della contemporaneità. “Joker” tratta temi attuali e sensibili negli Stati Uniti, primo tra tutti la mancanza di assistenza sanitaria, la diffusione capillare delle armi da fuoco, la totale mancanza di welfare che si configura come un abbandono totale da parte dello Stato verso l’emarginazione sociale e la povertà.
Con la mano pesante che serve a caratterizzare un personaggio che comunque, viene dal mondo dei comics, Joker riesce a tradurre in critica della situazione contingente una storia di follia pesante e senza smussature.
Il film ha portato con sé uno strascico di critiche molto peculiari. È stato accusato di giustificare la violenza legata agli incel – abbreviazione del neologismo “Involuntary Celibate”, una subcultura nata su internet dai tratti misogini che è sfociata in casi di violenza terroristica – raccontando appunto la parabola violenta di un emarginato che si libera dai propri problemi grazie a gesti violenti e di carattere quasi terroristico.
È una reazione classica dell’informazione mainstream quella di reagire a prodotti culturali che tentano di criticare lo status quo tramite la rappresentazione della violenza come elemento di sublimazione dell’emarginazione e della ferocia della società, non si può non pensare alla gogna mediatica che subì il rap all’inizio degli anni ’90 e la musica di Marilyn Manson a cavallo del passaggio di millennio.
Molto semplicemente, ancora una volta, la cultura, in questo caso cinematografica, fa quello che deve fare: opera una critica dello stato di cose esistente. Mettendo in scena la parabola tragica di un cittadino americano abbandonato dalle istituzioni, fluttuante in un tempo fatto di estremo divario tra poveri e ricchi, in cui la polveriera sociale è sul punto di esplodere, Todd Phillips critica gli Stati Uniti del 2019. Un paese sull’orlo del baratro, distrutto da una frattura insanabile, schiavo dell’ipercompetitività imposta dal capitale finanziario, in cui ogni mezz’ora negli Stati Uniti qualcuno impugna un’arma e uccide innocenti in strada, a scuola, nei cinema o sul posto di lavoro.
Il Joker di Phoenix-Phillips non è un rivoluzionario, ma è certamente lo specchio attraverso cui si riflette la società americana del nostro tempo, l’immagine di un paese spietato, impossibile da vivere, impossibile da cambiare. La fine della storia si configura così, come una risata isterica, incontrollabile che non lascia speranza, ma ispira la lucidità di comprendere il vicolo cieco nel quale ci troviamo.
Autore
Elio Balbo