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Per un pugno di storie – VII

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

(avventure trenodimensionali per giovani autostoppisti)
a cura di : !DORMOZERO!

Storia n°7

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Ho sempre amato stare in mezzo ai parchi, nel verde.

Ci sballavo nel perdermi per le colline dell’Oltrepò Pavese. Potevo vedere un tramonto diverso ogni sera sorseggiando una “moretti da 66” e fumando spensierato dopo una giornata di lavoro. La pelle bruciata dal sole, il sudore di stalla che quasi-quasi ti piace, la doccia fredda mentre gli ultimi raggi ti scaldano a dovere, la vita bucolica dentro a una casetta di paglia autocostruita.

Tutto fikissimo, peccato solo per lo stipendio da Rosarno.

Lavoravo per una cooperativa di hippie, che poi tanto hippie non erano. L’esperienza collettiva è stata una figata, ma ho ancora l’amaro in bocca per aver creduto che quello fosse un sistema alternativo di vita, basato sull’uguaglianza di tutti davanti ad un organo assembleare che promuoveva l’orizzontalità dei rapporti tra gli individui.
Beh… Fatto sta che lavorai lì per circa due anni. Nessun contratto, nessuna disoccupazione, mutua manco a pregare. Insomma, una bellissima inculata.
Avevo un contratto da dieci giorni lavorativi all’anno, e mi era stato specificato che semmai mi fossi fatto male era proprio in uno di quei fantomatici dieci giorni.
Sapete da ragazzino non ti interessa un cazzo, amavo quel posto ed ero disposto a fare di tutto per rimanerci, anche sapendo di essere malamente sfruttato. Il valore aggiunto del paesaggio toglieva il respiro ad ogni sera e quindi il compromesso era fattibile.
Il secondo anno, data la gavetta del primo, chiesi di firmare un contratto regolare per avere i requisiti minimi per la disoccupazione.

“Si Dimitri, faremo il possibile”. Mi era stato detto.

Arrivo per firmare il contratto e “taaaaaaacc” …di nuovo dieci giorni. Sono impazzito.
Capii in quel momento la vera natura di quel luogo che si spacciava per paradiso. I Boss, grazie al lavoro sottopagato degli schiavi come me, riuscivano a portare a casa uno stipendio regolare da dodici sacchi all’ora. Con quei dodici sacchi erano riusciti tutti a comprarsi una casa, costruita grazie al lavoro degli stessi schiavi che lavoravano nella cooperativa.
Serviva un piastrellista a Ugo per posare il pavimento di casa? Nessun problema ti mandiamo uno schiavo dalla cooperativa.
Decisi che era arrivato il momento di andarmene, cominciai a studiare per fare l’esame d’ammissione all’Accademia di Torino e che avrei lavorato il minimo sindacale per dedicarmi totalmente allo studio.
Avevamo un foglio ore da compilare ogni mese, e visto che ero stato ampiamente messo a pecora decisi che era il momento di prendermi la mia rivincita. Aggiungevo ore a caso, senza averle mai lavorate e riuscii con sforzo minimo a portare a casa un bello stipendio. Era il mio TFR, mettiamola così. Sparii a settembre e non feci mai più ritorno in quel luogo se non per sbronzarmi alle serate e sboccare ovunque.
Morale della favola: ho scoperto che spesso l’amore per la natura, per il biologico, per la sostenibilità, per l’autosufficienza vengono usate come specchi per le allodole e mascherano un sistema che non fa altro che perpetrare le stesse dinamiche della società che ci circonda, a cui nemmeno io riesco a sottrarmi…

Scrivo dalla casa di una ragazza con cui sto uscendo (una di noi potremmo dire), e porca puttana questa manco fa la differenziata perché sostiene che comunque viene buttato tutto insieme…che odio.

Autore

!DZ!