Le maglie azzurre e le braccia al cielo. Il silenzio religioso di fantozziana memoria e poi il boato che scuote la casa. Che esordio! Il Mondiale tanto atteso meglio non poteva cominciare: doppietta contro l’Australia, una delle formazioni più temute, gambe potenti, velocità disarmante. Noi ci abbiamo messo la testa, oltre che le qualità. Il cuore, be’ quello si sapeva, capace di andare anche contro la Var, contro la sfortuna, e di portarci a rimontare lo svantaggio iniziale: 1-2 ed esordio vincente. Grandi ragazze.
Ah, ragazze… Perché le donne possono giocare a calcio?
Ed è così che in un anomalo giugno del 2019 l’Italia si accorse che il gioco del pallone, quello fatto di miti e tattica, dribbling e fuorigioco, campetti rovinati e stadi importanti, notti insonni ed epiche battaglie, Maradona-Pelé, Messi-Ronaldo, lo stesso gioco di Socrates e del compagno Paolo Sollier, era appannaggio anche delle donne. Le ragazze azzurre – un gruppo forte e determinato – capace di qualificarsi alla competizione più importante a vent’anni dall’ultima partecipazione iridata, Stati Uniti 1999. Alla faccia dei colleghi maschi, grandi assenti lo scorso anno ai Mondiali di Russia.
La partita d’esordio ai Mondiali in corso in Francia contro l’Australia è stata una sintesi di ciò che questo gruppo, a guida Milena Bertolini, ct, coach, miss – non chiamatela, vi prego, mister! – è capace di fare in termini sportivi ed emozionali. Ma in ballo domenica 9 giugno non c’era solo il risultato, la possibilità di andare avanti nel torneo, la voglia di appassionare i cuori dei tifosi. C’era la necessità di conquistare uno spazio di visibilità in un universo – quello dal calcio azzurro – ancora troppo maschilista più che maschile. Un universo “sacro” e intoccabile dove il ruolo della donna è relegato a comparsa e macchietta, portandosi dietro anni di indifferenza e vera e propria discriminazione.
Come quando – ricorda Luisa Rizzitelli, presidente di Assist Associazione Nazionale Atlete – fino ad alcuni anni fa “alle calciatrici azzurre veniva dato abbigliamento maschile che, a fine competizione, erano obbligate a restituire”. Una di loro si rifiutò di riconsegnare pantaloncini e maglietta e subì la decurtazione della minima diaria che le spettava per il ritiro con la Nazionale. Quella ragazza era Patrizia Panico – bomber capace di segnare oltre 500 reti in Serie A e 110 reti con la Nazionale – una delle “divine” del calcio femminile azzurro. Oggi è assistente tecnica della Nazionale italiana Under-16, prima donna ad allenare una formazione maschile italiana.
Per lei, la strada da percorrere non è stata semplice, così come per l’altra icona azzurra, di una generazione precedente, Carolina Morace, protagonista ai Mondiali di Cina 1991, quando l’Italia giunse ai quarti di finale, sconfitta dalla Norvegia ai tempi supplementari, oggi tecnica di successo. Non lo è stata per loro, ma non lo è per le protagoniste di oggi, le stelle della nostra rappresentativa. Figuriamoci per le migliaia di ragazzine che si affacciano ai campetti di provincia incuriosite o trascinate dalla passione per il pallone.
Gli ostacoli sono prima di tutto organizzativi e di sistema. Basti pensare che Barbara Bonansea, autrice della doppietta vincente contro l’Australia, giocatrice di punta della Juventus, guadagna all’anno circa 40mila euro lordi. In Italia alle donne dello sport non è consentito essere professioniste. E al di là dei soldi messi in tasca, questo significa vivere di rimborsi spese, niente contributi, niente maternità, niente Tfr, pochissime certezze. Argomento che non riguarda solo il calcio, ma tutte le discipline sportive, perché le donne in Italia non hanno diritto d’accesso alla legge n. 91 del 1981, come da anni ormai denuncia l’associazione Assist.
Benché quello italiano sia un caso eclatante, le differenze in termini di trattamento tra uomini e donne in realtà riguardano anche il resto del mondo. Basti pensare che Ada Hegerberg, norvegese del fortissimo Lione, Pallone d’oro, e calciatrice più pagata al mondo (400mila euro all’anno, in Francia), ha rinunciato al Mondiale appena iniziato per protestare contro le discriminazioni della sua Federazione nei confronti delle compagne di Nazionale rispetto agli uomini.
A parlare dello squilibrio di condizioni è stata anche la capitana dell’Italia, Sara Gama, oggi giocatrice della Juventus, ma con un passato nella Division 1 Féminine, il campionato femminile, che in Francia è parte della Federazione calcistica a tutti gli effetti. La strada verso il professionismo – aveva detto qualche tempo fa in un’intervista all’Huffington Post – tuttavia deve essere graduale, anche perché molti club non potrebbero permettersi da un giorno all’altro di sostenerne gli oneri. Ma un’apertura, un passo in quella direzione, ci deve essere.
E non, come nel 2015 sostenne Felice Belloli, allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti, che si rivolse alle giocatrici che di quella Lega in Italia fanno parte, descrivendole come “quattro lesbiche”. E qui si viene all’altro lato della questione, che in realtà è legato a filo diretto al precedente. Lesbiche, maschiacci, incapaci che vogliono scimmiottare il calcio vero ma non sanno distinguere un’ala da un terzino. Tra i commenti più frequenti. Quelle che, quando parlano di tattica… “mi si rivolta lo stomaco”, disse in diretta Rai Fulvio Collovati, campione del Mondo nel 1982 con la Nazionale maschile. “Mentalità primitiva”, ha ribattuto la tecnica azzurra Bertolini, secondo cui parlare in questo modo significa “avere paura a confrontarsi con una donna”. E abbiamo la certezza che sia così. Il timore di perdere il proprio spazio esclusivo? Tremano le gambe? Dove sta il problema?
Una visione alimentata da giornali sportivi che si ricordano delle ragazze azzurre – e di ogni sport definito minore – solo quando arriva il risultato di successo, il palcoscenico importante, la notizia di gossip, mentre sono pronti a spendere fiumi di inchiostro sull’ultimo modello di mutande indossate da Cristiano Ronaldo. Ah sì, quel Ronaldo che può rimanere un mito ricoperto d’oro nonostante le accuse per stupro e che celebrò il gol in Champions contro l’Atletico Madrid stringendosi il proprio adorato membro davanti alle tribune impazzite, con la Gazzetta dello Sport a titolare “Ira d’iddio”. Lui non si è mai scusato. L’Uefa ha comminato al giocatore 20mila euro di multa, gli stessi che Ronaldo può permettersi di spendere per una bottiglia di vino a cena, gli stessi che Barbara Bonansea guadagna in sei mesi da giocatrice.
Oggi i giornali si ricordano che dietro a questa squadra azzurra che promette molto bene ci sono storie di ragazze che da anni dedicano la propria vita allo sport. Molte di loro sono laureate, una gioca all’estero, Elena Linari, vincitrice della Liga con l’Atletico Madrid. Altre ci hanno giocato, come Sara Gama, per due stagioni al Paris Saint-Germain.
Ed ecco l’ultimo capitolo, proprio quello su Sara, capitana e colonna della difesa azzurra. Triestina, con madre triestina e padre congolese, laureata in Lingue e letterature straniere, innamorata del calcio fin da bambina. Oggetto di attacchi per il colore della sua pelle. Posta al centro – in quanto capitana – della foto di squadra pubblicata sulle pagine social della Nazionale, è stata presa di mira da diversi idioti da tastiera che non hanno avuto meglio da fare che attaccarla e sostenere che fosse in primo piano proprio perché “l’unica” nera.
E invece è speranza. In un momento storico drammatico per il nostro Paese, con un governo espressione pura del peggior razzismo e sessismo, lei è donna, nera, bravissima a giocare a calcio. Anche qui qualche passo avanti lo stiamo facendo, merito anche di queste sportive coraggiose che hanno inseguito una passione, senza badare a chi le ha denigrate o ritenute incapaci o non all’altezza. Si dice che non importa come andrà a finire questo Mondiale, perché infondo la visibilità raggiunta dal gruppo è già una vittoria. Eppure la squadra di Milena Bertolini non si accontenterà di un po’ di flash e articoli di giornale. Venerdì 14 è la volta della Giamaica, martedì 18 l’Italia sfiderà il Brasile.
E allora mi viene in mente Arístides Reynoso, il racconto di Osvaldo Soriano, che voglio però qui – mi scusino i puristi – provare a declinare al femminile. “Mi raccontò che anche lei, da piccola, avrebbe voluto affacciarsi alla finestra, ma trovava soltanto una persiana chiusa. – Ma se una impara a guardare attraverso la fessura vede la luce, ragazza, – mi disse. – Falla passare di là, come passano le farfalle”.
Autrice
Ilaria Leccardi