Siamo arrivati al giorno che aspettavamo da tempo, la sentenza per gli arrestati dell’operazione “Maglio” che portò in carcere il giugno 2011 molti affiliati alla ‘ndrangheta su tutto il territorio piemontese. L’esito del primo grado di giudizio, purtroppo, è quello che ci si aspettava. Tutti assolti. La ‘ndrangheta non esiste. A differenza della grancassa mediatica, che si inchina alla decisione di un giudice o alle parole di Caselli “faremo ricorso”, vorremmo spendere due parole per spiegare come si è arrivati a questa vergogna e perché non poteva andare diversamente.
Le connessioni degli arrestati con la politica e l’imprenditoria sono fatti ampiamente dimostrabili, non opinioni. La sedia in testa di Caridi a Bellotti per la variante di Valle san Bartolomeo, ennesima speculazione di Persegona, non era per nulla metaforica. I grandi subappalti della ditta di costruzioni degli ‘ndranghetisti alessandrini, ottenuti grazie alla complicità delle più grandi aziende edili del territorio, Boggeri e Trecolli, non sono per nulla inventati. La parente di un arrestato eletta consigliera comunale a Novi nel 2004 è un dato di fatto.
Lasciamo da parte Caselli, che era troppo impegnato ad arrestare i Notav per accorgersi di come le ‘ndrine operassero sul territorio. È possibile che Alessandria in Movimento riesca a vederci chiaro nella faccenda denunciando, a breve distanza dagli arresti, una fitta rete di connivenze, e che dei magistrati invece non abbiano nulla da dire in proposito? Pare di sì. Anche perché nel nostro bel paese dare subappalti a persone che non si conoscono poi tanto bene non è reato. Sotto una certa cifra, 150.000 euro, non si devono nemmeno presentare le certificazioni antimafia. Candidare dei mafiosi, poi, non è una cosa per cui si possa mettere in croce qualcuno. Capita, sapete. Corrompere funzionari per avere appalti di lavori pubblici oppure raccogliere voti in cambio di denaro è da birichini ma non essendoci una legge sulla corruzione e sul traffico di influenza, è cosa tutta da dimostrare.
Le indagini per questo processo erano tese unicamente a dimostrare l’appartenenza di queste persone all’organizzazione criminale ma non a dimostrare come queste operassero sul territorio.
Tralasciando le amare considerazioni su come vengono svolte le indagini in Italia, proviamo a pensare a come si è arrivati a questo punto. Cosa ha permesso che si creasse un cono d’ombra sulla vicenda, lasciando che un giudice assolvesse a cuor leggero persone accusate di fatti così gravi, dopo un anno di galera?
È semplice. Dal giugno 2011 ad oggi la politica tutta si è guardata bene dal fare dichiarazioni su questa indagine. Non è mai esistita per i partiti, da Alessandria a Novi Ligure. E non è stato poi difficile tenere il riserbo, perché nessuno ha avuto l’idea di fare qualche domandina, a parte alcuni blog e testate online che si sono concessi il lusso di fare del giornalismo serio. All’indomani della pubblicazione della nostra inchiesta ricevemmo telefonate ed e-mail di molti giornalisti. Tanti complimenti e stupore per il lavoro fatto. Ci venne detto che a palazzo non si parlava d’altro e che avevamo tolto il sonno a più di una persona. Ma non ci fu nessun articolo che riportasse le nostre affermazioni. Alcuni hanno motivato il fatto dicendo che la linea del giornale impediva di rilanciare contenuti legati a internet, altri hanno ammesso l’indisponibilità a trattare l’argomento. Altri ci hanno provato, scrivendo cose degne, ma quando il capo ha letto l’articolo si è rifiutato di pubblicarlo. Allora abbiamo invaso la provincia con 20000 copie cartacee della nostra inchiesta. Se non deve essere scritto sui giornali e detto in Tv, che sia almeno argomento delle chiacchiere da bar.
Come abbiamo avuto modo di affermare in un articolo del settembre scorso, se siamo arrivati al logico epilogo di oggi è solo colpa di chi non ha voluto rendere centrale questo argomento all’interno del dibattito politico locale. Se un tribunale si permette di dire che la mafia non esiste è perché non ci siamo indignati abbastanza. Ci siamo voltati dall’altra parte con la scusa che bisognava lasciar fare il proprio lavoro alla magistratura. Lo dicevamo, chi pensa che siano i giudici a spazzare via questo schifo o è stupido o è in malafede. Oggi ne abbiamo la dimostrazione fattuale: a distanza di un anno e mezzo, coperti dal silenzio i reati, nessuno sente il bisogno di accertare con una commissione comunale gli atti creati dalla commissione presieduta da Caridi, così come nessuno si sogna di andare a chiedere a mister Trecolli il perché di tutti quegli appalti alla ‘ndrangheta. Per gli avvocati della zona che hanno compiuto quest’eroica difesa, Goglino e l’ex consigliere comunale della destra alessandrina Rovito, è un successo e già fioccano gli attestati di stima. La città ha dovuto persino sopportare questa estate i manifesti attaccati dagli amici di Caridi che inneggiavano alla sua innocenza, chiedendo la sua liberazione, con tanto di firma dell’associazione “calabresi nel mondo”. Scene da film di Cetto la Qualunque. Nessuno si è dimesso né lo farà, nessuno pensa che sussista ancora oggi il rischio di infiltrazioni mafiose negli appalti, nemmeno nei lavori dell’alta velocità che in Valsusa sono permeati dalla ‘ndrangheta e che da noi cominciano a vedere l’arrivo di ditte esterne già compromesse con la giustizia. La loro organizzazione ne esce rafforzata e anche quei pochi beni (ma proprio pochi) che vennero sequestrati saranno restituiti.
Chi ha agevolato il crearsi di questa situazione, omettendo di denunciare ad ogni livello, ha il triste primato di aver introdotto il metodo dell’omertà nel nostro territorio. Ovunque si moltiplicano le notizie di arresti per pacchetti di voti comprati dalle famiglie mafiose e appalti dati in cambio: Piemonte, Liguria, Lombardia e Calabria solo nella cronaca più recente. Lo ribadiamo ancora una volta, la ‘ndrangheta ad Alessandria c’è e vive a piede libero. L’indagine sulla commissione presieduta da cumpare Peppe “u scarparu” Caridi va fatta e i mesi trascorsi inutilmente dall’elezione della nuova giunta dimostrano che non è diversa dalla precedente. Cosa hanno paura di trovare in quelle carte i politici alessandrini? Forse il legame indicibile tra le aziende di Persegona, protagoniste della speculazione edilizia di Valle S.Bartolomeo, e i compari di Caridi, che noi denunciamo da più di un anno e di cui il giudice di questo processo non s’è accorto?